martedì 22 dicembre 2020
Dieci anni. Tanti ne sono passati, da quando il venditore ambulante Mohamed Bouazizi, per protesta contro il sequestro arbitrario della sua mercanzia di ortaggi e del misero carretto con cui la trasportava, si uccise dandosi fuoco (come i bonzi vietnamiti) davanti al municipio di Sidi Bouzid, in Tunisia. Il suo drammatico gesto diede l’avvio alla cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini e alle Primavere arabe per la riconquista democratica del potere, provocando la caduta di pluridecennali tirannie mediorientali e africane a seguito di grandi manifestazioni di piazza e di moti popolari (che, in alcuni casi, portarono a guerre civili a tutt'oggi ancora in corso), in almeno una decina di Stati africani e mediorientali. Tra il 2011 e il 2012, a farne le spese, rimettendoci il potere e talvolta la vita, furono satrapi violenti e sanguinari del calibro di Mu’ammar Gheddafi in Libia, Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, Hosni Mubārak in Egitto e Ali Allah Saleh in Yemen. Oggi, di tutto quel sangue e quelle speranze deluse (anche per colpa della miopia dell’Occidente e dell’Europa, in particolare all’epoca del bombardamento della Libia in appoggio alle milizie anti-Gheddafi) non rimangono che macerie, Tunisia compresa, considerata l’ultimo, residuale e più saldo baluardo contro il ritorno del dispotismo.
Le cause di questo colossale fallimento, identico nella sostanza a quello del fatidico Nation Building di George Walker Bush che portò alla distruzione dell’Iraq, risiedono fondamentalmente nelle seguenti tre cause. In primo luogo, si è ideologicamente accreditato e trapiantato dall’alto, con un’operazione chirurgica a effetto, un organismo molto complesso e del tutto estraneo al corpus sociale ricevente, in quanto clonato dai modelli di funzionamento delle democrazie rappresentative occidentali, che prevede una rigorosa divisione dei poteri e l’implementazione di un balance tra Parlamento, esecutivo, giudiziario e il cosiddetto “Quarto potere” della libera informazione. Il tutto, come avvenne in Iraq, senza tenere in alcun conto la tradizione millenaria delle comunità musulmane autoctone in cui, da un lato e in determinate situazioni, la netta separazione tra potere spirituale e potere temporale è risultata letteralmente impossibile, in assenza di un’elaborazione plurisecolare sullo Stato di diritto ai fini dell’abbandono progressivo della Sharia (o legge islamica), e del suo confinamento esclusivo nell’ambito dell’esercizio spirituale. Dall’altro lato, la stessa incosciente ignoranza dei presunti vincitori planetari del capitalismo sul comunismo, così come sancita dalla presupponente Fine della Storia alla Francis Fukuyama, si è innestata su piattaforme sociopolitiche iper-frammentate e a incastro problematico come quelle relative alle diverse realtà tribali tradizionali, in lotta perenne e millenaria tra di loro per il controllo delle risorse idriche, bene di vitale importanza nelle regioni desertiche. Terzo e non secondario aspetto di questa nascita con il forcipe della democrazia all’occidentale, partorita in aree storicamente del tutto estranee ai processi di partecipazione democratica, è rappresentato dall'emergere di forti gruppi e rappresentanze parlamentari (come l’Ennahda tunisina) ispirati e finanziati dal movimento fondamentalista dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi, a seguito dello svolgimento delle elezioni legislative in alcuni Paesi arabi, hanno ottenuto solide rappresentanze parlamentari, conquistando il potere come in Egitto, dal quale sono stati successivamente estromessi con il colpo di Stato militare del generale Abdel Fattah al-Sisi e dalla conseguente, spietata repressione e persecuzione dei loro sostenitori. In Tunisia, rimasta miracolosamente immune dal ritorno del tiranno, come nota Le Monde del 17 dicembre, l’anniversario della rivoluzione si celebra in un contesto molto degradato dove si coniugano gli aspetti deleteri “della paralisi politica, della crisi economica e della polveriera sociale”. Tecnicamente, la Tunisia è virtualmente uno Stato in default, a causa dell'alto indebitamento pubblico, della disoccupazione giovanile dilagante e della grave recessione economica.
Cosicché, a Tunisi e in altre principali città del Paese è di ritorno la protesta popolare, in conseguenza delle precarie condizioni socio-economiche in cui vive gran parte della popolazione. Giovani, donne e persone in età da lavoro sono prive di prospettive occupazionali, afflitti per di più da una disoccupazione intellettuale senza precedenti e da processi migratori sempre più consistenti verso il Vecchio continente. A essere colpite sono soprattutto le zone interne della Tunisia, per le quali non si è provveduto alla creazione di infrastrutture di base e ad attrarre investimenti produttivi dall’estero, malgrado l’abbondanza di manodopera giovanile con un medio-alto livello di scolarizzazione, a tutto vantaggio delle aree costiere più sviluppate. Vale il detto “a che cosa ci è servita la libertà se siamo più poveri di prima?”. L’Europa dovrebbe fare tesoro di questi suoi fallimenti, facendosi carico del proprio futuro e di quello dell’Africa mediterranea attraverso la messa a punto di un piano di sviluppo intercontinentale, che prenda a modello e ne migliori le progettualità delle grandi opere infrastrutturali della Road & Belt Initiative cinese. Se non avremo il coraggio di farlo, a ricordarcelo saranno allora le invasioni pacifiche di centinaia di milioni di profughi economici, in fuga dalle aree depresse dell'Africa mediterranea e centrale.
di Maurizio Guaitoli