mercoledì 4 novembre 2020
Terrorismo… pandemico? Questo è, perlomeno, quello che ci vorrebbe far credere, come sua massima aspirazione, il successore di Al-Baghdadi, dopo l’attacco di Vienna, di cui però rimangono ancora oscuri i contorni, le complicità e le basi logistiche dei terroristi. Nondimeno, un’analisi va condotta, astraendosi dal contesto del singolo attacco. La prima domanda da farsi è: chi sono i terroristi? Foreign fighters di ritorno che hanno militato sotto le bandiere dell’Isis e di Al-Qaeda al tempo dello Stato islamico e del califfato di Al-Baghdadi? O lupi solitari, atomizzati e camaleontici, una sorta di silent agent dell’islamismo radicale globale, neo-convertiti residenti in Europa, o importati dal Maghreb, dall’Iraq, dalla Siria e dalla Libia attraverso gli sbarchi illegali che hanno raggiunto in questi anni le coste mediterranee e italiane, in particolare? Di sicuro, resta che la maggior parte di costoro è pronta a colpire in ogni dove, spesso mimetizzata nelle comunità musulmane presenti in diverse metropoli e Stati europei. La seconda domanda, ancora più importante, è la seguente: quali e quante sono le centrali, ovvero i corpi organizzati che hanno una strategia per obiettivi da colpire, finanziamenti, logistica e reti di miliziani e fiancheggiatori in grado di realizzare gli attacchi pianificati? E dietro a tutti costoro esiste, o no, un burattinaio che li arma e ne finanzia i campi di addestramento da qualche parte nelle aree più violente, in Yemen, in Siria, in Nigeria, dove la ribellione e le milizie integraliste combattono in armi contro i regimi secolari?
Per quanto riguarda il primo punto (lupi solitari, piccoli gruppi organizzati di foreign fighters) la risposta più banale è che, in fondo, “tutto fa brodo”: l’importante è dare al mondo la percezione che l’embrione, il germe (il famoso virione del Coronavirus) dell’Islam radicale resiste e continua a vivere sottotraccia, malgrado non abbia più uno Stato. La risposta alla seconda domanda, invece, è molto più complessa, essendo un lavoro da specialisti. Soprattutto in un momento come questo, dove il Medio Oriente e gli Stati del Golfo si stanno ri-orientando, per una diversa e decisamente antiradicale politica nei confronti dello Stato ebraico. Ciò che ci deve più impressionare, invece, sono gli attacchi con i coltelli, armi disponibili in tutte le abitazioni del mondo. Lì, oltre al disprezzo per la vita altrui e della propria, il segno distintivo è dato da un concentrato di odio fuori misura. La mano del ceceno, dell’afghano, del tunisino che affondano il coltello nel collo delle vittime menando terribili fendenti che ne provocano la decapitazione è, chiaramente, uno strumento per la purificazione nel sangue dell’offesa al Dio unico, assolutamente indipendente dall'etnia. Tagliare la testa è un atto profondamente simbolico: perché nella testa ha agito il pensiero blasfemo e risiede la lingua del bestemmiatore che lo ha pronunciato.
La cosa impressionante, in tal senso, per chi crede nella dea ragione, è la rimozione delle membrane che separano le varie aree del Sé, per cui tutti i cristiani vengono identificati con il nemico che bestemmia e come tali punibili in modo indifferenziato con la decapitazione a fil di spada. Qui, la cosa davvero interessante è il passaggio dall’Ak-47 (il famoso kalashnikov dei terroristi islamici) all’arma corta da taglio, dove stavolta il corpo della vittima lo si tocca materialmente, se ne vede lo sguardo terrorizzato, ci si bagna il polso con il suo sangue che esce a fiotti e si riversa un po’ ovunque intorno al carnefice. Ma, chi colpisce non si sente un sicario ma il vendicatore, il giustiziere, il prediletto da Dio. Forse, anzi, quasi certamente, lo stesso sentimento che provarono i cavalieri francesi che conquistarono Gerusalemme e, che per questo, avevano le caviglie immerse nel sangue dei propri compagni e in quello dei maomettani che avevano difeso la città sacra. Mentre l’Occidente, con le sue carneficine millenarie tra europei e cristiani di vario genere, ha completamente consumato quella forza primordiale della fede, attraverso la sublimazione del Dio unico comune, della tolleranza e convivenza religiosa, grazie a un’attenta e plurisecolare elaborazione della dottrina, nel mondo musulmano viceversa non si è assistito ad alcuna evoluzione simmetrica. Anche laddove le città cosmopolite dei califfi instaurarono di fatto la tolleranza verso le altre religioni, lo fecero su una base di sussidiarietà, negando qualsiasi tipo di riconoscimento egalitario della pari dignità della pratica e del credo religioso che non facessero riferimento al Corano.
Da alcuni decenni, in particolare dalla rivoluzione khomeinista in poi e dagli interventi di russi e occidentali in Afghanistan, è accaduto un fatto di rilevanza eccezionale: la riscoperta dell’interpretazione letterale delle sure coraniche e dei principi maomettani che fanno coincidere Stato e Chiesa sotto l’unica legge della sharia, trattando da infedeli (e quindi, da convertire o da passare per la spada) tutti coloro che non si riconoscono nell’umma, o nella comunità musulmana mondiale. In particolare, deve essere annientata qualsiasi orma di non credente che calpesti il sacro territorio del Dar al-Islam, ovvero “la Casa dell’Islam”, che coincide con lo spazio territoriale e politico soggetto alla legge islamica e abitato dalla umma, o comunità dei credenti, entro il quale è vietato condurre guerre. E questo ben spiega le ondate di terroristi suicidi che hanno devastato l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria, dove i sacrileghi eserciti occidentali avevano osato mettere piede in armi. Il fondamentalismo integralista ha preso alla lettera il principio opposto di Dar al-harb (la “Casa della guerra”), ossia il territorio extra islamico nel quale è lecito e doveroso condurre la jihad.
Qui da noi, in Europa, le carceri rappresentano uno dei serbatoi privilegiati di reclutamento: il delinquente musulmano si redime e purifica riscoprendo la sua identità di fedele attraverso il ritorno all’Islam delle origini, contro quella società empia e corrotta che, con la sua mancanza di luce, lo ha condotto al peccato. I jihadisti si mimetizzano, bevono, vanno a donne, e imitano tutti i costumi corrotti degli infedeli, autorizzati in questo dallo stesso precetto islamico che li abilita a colpire nell’ombra pur di compiere la loro missione purificatrice. Conclusione: come sempre, la vera guerra sta nelle menti e negli spiriti. È lì che occorre tornare a guardare.
di Maurizio Guaitoli