lunedì 31 agosto 2020
Alle Regionali in Campania, il sondaggista Nando Pagnoncelli accredita il partito di Matteo Salvini di un magro 3 per cento. La Lega non ci sta e, per bocca di Nicola Molteni, annuncia querela. Quella previsione di flop, pubblicata ieri l’altro su Il Corriere della Sera, è una lesione d’immagine che la classe dirigente leghista del Sud non gradisce.
Tuttavia, sebbene la penalizzazione della Lega sia eccessiva, una difficoltà di Salvini a fare breccia in Campania c’è. E ha fondate ragioni. La storica svolta in senso nazionalista della Lega 2.0 non ha mai del tutto convinto i campani. In una realtà, in particolare napoletana, che per quanto possa sembrare fantascientifico è tutt’oggi sensibile a pulsioni revansciste risalenti al crollo del Regno delle due Sicilie e alla predazione delle ricchezze del Sud da parte dei conquistatori “piemontesi”, la conversione salviniana non è ritenuta sincera. Per cicatrizzare quella ferita, mai sanata nella coscienza profonda del popolo napoletano, Salvini avrebbe dovuto far precedere il suo riposizionamento strategico da una coraggiosa iniziativa nel segno del revisionismo storico per restituire l’onore agli sconfitti di un tempo insieme a una seppur parziale riabilitazione della verità sulla costruzione dell’Unità d’Italia. Un gesto forte, che un popolo permeabile alle passioni, anche quelle più accese, avrebbe certamente colto positivamente. E avrebbe mostrato nelle urne il proprio apprezzamento.
Invece, Matteo Salvini ha preferito le vie brevi. La sua è stata strategia di mercato, non diversa da quelle di alcune grandi aziende che concedono a gestori locali il proprio marchio in franchising per entrare in piazze commerciali altrimenti precluse. La prima operazione d’investimento, guidata dal senatore Raffaele Volpi, oggi passato alla presidenza del Copasir (l’organismo parlamentare per la Sicurezza della Repubblica), per conto del capo politico ha portato all’individuazione di un nucleo d’apparato organizzativo proveniente da Alleanza nazionale post disastro finiano. Come era naturale che accadesse, il personale reclutato non ha mai pensato di aprirsi al territorio, provando a sensibilizzare alla causa leghista figure di primo piano della società campana, per far crescere nell’opinione pubblica un sentimento positivo rispetto alla Lega. Si è preferito chiamare a raccolta i sodali di un tempo promettendo loro una rivincita locale sull’onda lunga del successo salviniano. A succedere al senatore Volpi nel ruolo proconsolare di rappresentante del segretario politico in Campania, è stato un anno fa il brianzolo Nicola Molteni. Il successore di Volpi, complice la sciagura del Covid-19, non ha smosso le acque come qualche inguaribile ottimista avrebbe sperato. Perciò tutto è rimasto così com’era all’inizio dell’avventura. È in questa cornice che va collocata la composizione della lista alle regionali. Il bacino elettorale al quale punterà la Lega campana sarà una parte di quella dote lasciata da Alleanza nazionale. Dote, però, che andrà contesa con Fratelli d’Italia e, in minor parte, con Forza Italia, che negli ultimi anni sono stati porti naturali d’approdo dei naufraghi finiani.
Piccoli spostamenti nel mercato interno comunque ci sono stati anche a favore dei leghisti. Un esempio. Il nome di una giovane e brillante imprenditrice nota negli ambienti confindustriali, con un breve passato in Forza Italia da cui è stata candidata senza successo a un seggio senatoriale alle politiche del 2018 e poi, sempre senza successo, proposta come candidata sindaco per la coalizione del centrodestra in un comune dell’hinterland napoletano, oggi compare nella lista regionale leghista.
Intendiamoci, la Lega non crollerà al 3 per cento come vorrebbe il sondaggio di Pagnoncelli, ma neppure determinerà la vittoria del candidato della destra plurale, Stefano Caldoro. Troppo bravo Vincenzo De Luca? No, troppo debole lo sfidante scelto da Silvio Berlusconi. L’altro motivo per il quale la Lega non sfonda in Campania è che l’elettorato d’opinione il suo candidato simil-leghista c’è l’ha già e si chiama Vincenzo De Luca. Siamo ai paradossi che solo la fantasia napoletana può concepire. Il Governatore uscente vincerà perché ha condotto il suo mandato quinquennale con un piglio ostile agli apparati di potere che tradizionalmente sono rappresentati dal Partito Democratico. De Luca, con una storia personale incistata negli interstizi del potere della sinistra post-comunista, ha vestito i panni dello “sceriffo” legge-e-ordine al punto da riconoscersi nello stereotipo del politico rozzo ma efficace, solitamente attribuito al leader leghista. De Luca è stato re e Masaniello nella stessa commedia. E ai campani, noti estimatori di teatro, questo intreccio plautino è piaciuto. È il capopopolo che si porta dietro quell’apparato vetero-democristiano, paternalistico e clientelare che, a parole, avrebbe dovuto abbattere. De Luca è Ciriaco De Mita, è Clemente Mastella, è la vecchia guardia bassoliniana, è il sistema cosentiniano che, abbondonati i lidi desertificati del berlusconismo meridionale, è approdato sulla sponda non del centrosinistra, ma “deluchiana”. C’è differenza. Come direbbe il mitico Pier Luigi Bersani: De Luca è ‘sta roba qua. Per contrastarlo, la destra avrebbe dovuto schierare una figura forte di politico in grado di catturare attenzione, di scuotere animi, di accendere passioni. Insomma, un uomo con lo stigma del leader. Invece, Stefano Caldoro, persona degnissima, è il passato. Per di più, un passato che non ha lasciato tracce indelebili al suo passaggio. Se fosse una competizione sportiva, Caldoro sarebbe un elegante tennista, De Luca uno che pensa di disputare una partita di calcio fiorentino, non nel senso della squadra viola ma del calcio che si confonde con il rugby.
Per la cronaca, Matteo Salvini ha provato a convincere Berlusconi a cambiare cavallo, ma il vecchio leone di Arcore non ha voluto sentire ragioni. Il leader leghista per la campagna elettorale in Campania non si è speso granché oltre il minimo sindacale. Certo, non ce la sta mettendo tutta come in Toscana dove è candidata una beniamina del popolo leghista, e sua personale. La sensazione, maliziosa, è che la sconfitta in Campania sia stata messa nel conto e, in prospettiva, la si voglia convertire in opportunità per ribadire i rapporti di forza all’interno della coalizione. Tanto più che nessuno tra i forzisti potrebbe aprire il giorno dopo la sentenza delle urne un processo a carico della paventata débâcle leghista in Campania. Primo, perché i numeri del partito berlusconiano, dopo le massicce defezioni, saranno ugualmente bassi. Secondo, perché Salvini avrebbe buon gioco a rinfacciare ai forzisti la sconfitta in Emilia-Romagna provocata più che dalle sue infelici esternazioni dal crollo di consensi a Forza Italia. Come finirà?
Come sempre nelle buone famiglie meridionali. Si enfatizzerà il buono che sarà stato fatto, si glisserà sugli errori commessi, si gioirà per qualche compagno di cordata eletto consigliere regionale e si metterà la polvere sotto il tappeto. In fondo, l’animale più rispettato sotto la linea del Garigliano è pur sempre il gattopardo. Perché affaticarsi a pensare che sia meglio cambiare quando tutto può essere come prima?
di Cristofaro Sola