lunedì 25 maggio 2020
Avete mai letto I Traditori di Giancarlo De Cataldo? O gli atti del Parlamento post-unitario? O le denunce sulla collusione Stato-Mafia presentate dai parlamentari italiani liberali e di sinistra eletti nel Parlamento italiano nei primi Anni Venti del XX secolo? O atti del tutto similari depositati dai loro colleghi nel Secondo Dopoguerra? O i retroscena della rimozione del Prefetto Cesare Mori? Allora, che cosa c’è da capire? Servono pronunce o teoremi giudiziari sulla Trattativa tra Stato e Mafia per andare oltre quello che storicamente e politicamente è da più di un secolo un fatto consolidato e fuori discussione? Tuttavia, dal punto di vista della ricostruzione storica dell’interregno cinquantennale della Dc e del suo discutibilissimo meridionalismo occorre, a mio giudizio, passare al setaccio alcuni, delicati argomenti rimasti nell’ombra. Il primo, il più importante, riguarda l’accentuata e quasi monopolistica penetrazione, a tutti i livelli dell’impiego pubblico romano e nazionale, di personale amministrativo proveniente dal Mezzogiorno d’Italia.
Questo fatto storico non è davvero di poco conto, in quanto la stessa azione dei poteri pubblici viene pesantemente condizionata, per la parte devoluta per la sua realizzazione alle strutture burocratiche centrali e territoriali, proprio da quella visione familistica, antimoderna, sordamente avversa alla meritocrazia e alla libertà individuale d’impresa. Una mentalità prevalentemente fondata sul principio dei clientes, che affonda le sue radici nelle tradizioni borboniche e nell’humus dell’industria informale della protezione, praticata soprattutto dai capibastone meridionali nei confronti delle più miserabili classi proletarie e contadine dell’epoca pre-risorgimentale. Perché un conto è combattere e vincere storicamente un terrorismo rosso-nero, isolato e avulso dal sistema. Altra cosa, invece, è attuare la missione impossibile di intervenire chirurgicamente per separare un tessuto socio-politico geneticamente ibridato. Del resto, quanto più gli apparati amministrativi dello Stato perdono autonomia nell’auto selezione delle proprie classi dirigenti, tanto maggiore diviene la presa clientelare anti-meritocratica del potere politico, per cui da tempo le nomine si decidono secondo le logiche spartitorie degli assetti di potere pro tempore.
Ad esempio, a seguito degli scandali di Francesco De Lorenzo e della P2 che sconvolsero delicatissimi apparati di intelligence dell’epoca, la scelta ricostruttiva che venne fatta fu quella di ricorrere con assoluta discrezione a personale di una certa esperienza, proveniente dagli apparati di polizia periferici e centrali che, a loro volta, avevano subito profonde rimodulazioni al loro interno a causa di quegli scandali. Funzionari e dirigenti anziani così cooptati risentivano per formazione e metodo degli acquis operativi della tradizione ovranista (l’Ovra era l’organismo dei servizi segreti fascisti) come quelli del trattamento delle fonti, radicalmente distinti tuttavia dai metodi brutali del genocidio etnico-ideologico, che aveva popolato con milioni di vittime innocenti e di dissidenti i campi di concentramento staliniani, prima, e nazisti dopo. Anche la Stasi della Germania Est (come l’Iraq baathista di Saddam Hussein!) aveva in parte diligentemente introiettato la lezione ovranista (oltre a quella čekista) del controllo capillare dell’opinione e del sentimento popolare, facendo della delazione generalizzata il fulcro del potere comunista.
Quindi, in quegli anni 70 e 80, anche il trattamento delle fonti mafiose seguì la logica del Do ut des per cui alle gole profonde (come accade oggi per le consegne controllate) si davano informazioni riservate sulla loro sorte per sottrarli alla cattura. Tuttavia, rimane un cono d’ombra su cui occorrerebbe far luce e che prescinde dalla dimensione puramente italiana della Trattativa. Mi riferisco, in particolare, a quegli eventi fortemente destabilizzanti che avvennero in Italia nei primissimi anni ‘90. Ci fu o no un’intelligenza esterna internazionale che mise in moto il terremoto della divisione Nord-Sud, attivando una perfetta sincronia tra il secessionismo lombardo-veneto e quello siciliano stragista di Totò Riina? Rappresentò o no questa strategia un atto di ritorsione, dopo la fusione della Cortina di Ferro, rispetto a quell’iceberg della geopolitica che ebbe come vertice Sigonella e l’Achille Lauro di Bettino Craxi e come base l’amplissima pratica dei due forni messa a punto da certi settori della Dc nei confronti del terrorismo palestinese e dell’Alleanza Atlantica?
Ci fu, o no, all’epoca un pari coinvolgimento della mafia siciliana americana (come avvenne nel 1944 con Corleone e lo sbarco degli Alleati in Sicilia) che lasciò fare ai corleonesi stragi di picciotti e di uomini di Stato, convinti dell’utopia che un’isola finalmente autonoma potesse rappresentare l’ennesima stella nella bandiera americana, offrendo così agli Stati Uniti allora vittoriosi su tutti i fronti il controllo totale e incontrastato sul Mediterraneo? Credete che sia solo una favola? Per convincervi del contrario, analizzate bene la penetrazione cinese con i suoi megacorridoi fisici della Road&Belt Initiative, e poi ditemi se la loro conquista pacifica (con denari sonanti!) dei porti italiani non assomiglia come una goccia d’acqua a quella cosa lì?! Perché, infine, i grandi pentiti di mafia non hanno quantizzato la potenza di mobilitazione del voto meridionale, e non solo, da parte del substrato mafioso che opera trasversalmente sul territorio nazionale? Quale terribile vulnus, da mezzo secolo a questa parte, ha inferto la logica mafiosa alla democrazia rappresentativa italiana? E quale diga democratica riuscirà oggi a fermare la conquista territoriale degli animi e delle vite da parte degli immensi capitali liquidi mafiosi, che stanno dilagando all’interno dell’economia italiana nella crisi post-Covid?
di Maurizio Guaitoli