venerdì 17 aprile 2020
Galleria di Presidenti
Giuseppe Saragat (1898-1988), nato da una nobile famiglia di origini sarde, partecipò al primo conflitto mondiale da ufficiale volontario di artiglieria e venne decorato con una Croce di guerra. Laureatosi in Scienze economiche e commerciali, nel 1922, anno dell’ascesa del fascismo, entrò a far parte del Psu, non per avere letto Karl Marx, bensì – sono parole sue – per “aver visto nelle piazze di Torino i figli di papà bastonare la povera gente”. Durante l’esilio a Vienna e Parigi, maturò il convincimento che non bisognava rivolgersi solo alle classi operaie, in quanto il concetto stesso di “lavoratori” era necessariamente comprensivo di tutti i ceti produttivi indistintamente, vuoi che operassero nelle professioni, che nei mestieri, onde la borghesia ne faceva parte a pieno titolo. Ciò comportava – tra l’altro – il ripudio della lotta di classe e l’accettazione incondizionata del metodo democratico per l’affermazione dei diritti del proletariato. Nel periodo dei “Fronti popolari” (1934-38), Saragat approvò il patto di unità di azione tra socialisti e comunisti; ma dopo il criminale patto Molotov-Von Ribentropp per la spartizione della Polonia, nel 1939 scrisse all’amico Pietro Nenni che quel patto era la fine della Terza Internazionale ed era il principio di un nuovo movimento socialista, a cui dovevano affluire i militanti comunisti stomacati e delusi.
Rientrato in patria nel 1943, dovette acconsentire a sottoscrivere un nuovo patto di azione unitaria con i comunisti, ma solo per l’emergenza del momento. Arrestato lo stesso anno con Sandro Pertini e trasferito nel famigerato III Braccio di Regina Coeli, riuscì ad evadere con lui, grazie all’amico Sebastiano Vassalli nel gennaio1944. Fondatore con Nenni e Lelio Basso del Partito socialista di Unità proletaria, venne eletto nel ‘46 presidente dell’Assemblea costituente, ma poco dopo si realizzò l’ennesima frattura in casa socialista, con Nenni fautore di una sempre più intensa sinergia con i comunisti, e Saragat che, viceversa, guardava al modello delle grandi democrazie scandinave. Pertanto con la scissione di Palazzo Barberini nel gennaio 1947 fondò il Partito socialista dei lavoratori italiani (dal 1951 Psdi), allineandolo alle posizioni dell’Internazionale socialista. Nel dramma umano e politico che intimamente avvertiva, rivolse un appello a quelli che sarebbero stati amici separati: “Voi, fratelli lavoratori di altre fedi – esclamò – che non decifrate questa pagina di oggi, tuttavia non laceratela. Verrà il momento in cui la intenderete, e sarà il gran giorno dell’unità di tutte le forze del lavoro”. Subito dopo la scissione, nel momento in cui non si sentì più espressivo del fronte comune che lo aveva eletto, avvertì il dovere morale di lasciare la presidenza della Costituente, nel cui ambito, da semplice membro, sottolineò che la nuova Carta era doverosamente attenta alla voce delle minoranze e che la sua maggiore novità sarebbe stata data, accanto alla recezione dei diritti inalienabili della persona calpestati dal fascismo, dall’introduzione dei “diritti sociali”; nonché dalla centralità accordata al fattore “lavoro”, quale prima fonte di produzione della ricchezza, in luogo della “proprietà”, anch’essa comunque oggetto di apposita guarentigia.
Il 18 aprile 1948 il blocco moderato facente capo alla Democrazia cristiana, ottenne il 48,8 per cento dei voti, incluso il 7 per cento dei socialdemocratici; mentre il Fronte democratico – popolare dei social – comunisti ne ebbe il 32 per cento: è facile comprendere quanto pesò sulla bilancia della scelta occidentale, l’apporto dei seguaci di Saragat, che in ragione di ciò subì le peggiori accuse dagli ex compagni, quali l’essere un social – fascista ed un traditore del movimento operaio. Eletto ininterrottamente deputato dal 1948 al 1962, più volte ministro e vicepresidente del Consiglio, svolse memorabili interventi in occasioni storiche, come quella dell’invasione dell’Ungheria (1956), che confermò tragicamente la sua lungimirante valutazione della mostruosità della dittatura comunista, di cui cominciavano a rendersi conto anche i socialisti. Nel 1962, in pieno boom economico, Saragat fece un’analisi di straordinaria profondità, circa la scarsa consapevolezza da parte dei cittadini in ordine alle priorità da conseguire approfittando di quella favorevole congiuntura, esortandoli ad orientarsi di più sui consumi riguardanti la pubblica sanità e l’educazione, senza lasciarsi fuorviare da campagne pubblicitarie promotrici del superfluo.
Dopo una lunga, tormentata trattativa fra le forze presenti in Parlamento, fu eletto nel 1964 al Quirinale, dove esordì sottolineando che tre erano i grandi doveri cui la democrazia era chiamata ad ottemperare : la difesa della pace e della sicurezza, vieppiù attraverso la costituzione di un’Europa democratica, economicamente e politicamente integrata; il consolidamento delle libere Istituzioni; l’avvento di un sistema sociale in cui l’iniziativa individuale si saldasse con quella della collettività. Il consolidamento delle Istituzioni doveva partire dalla centralità del Parlamento; nel campo sociale l’attuazione del dettato costituzionale imponeva come priorità: la casa ai lavoratori, la sanità pubblica e la scuola, la qual ultima doveva premiare la capacità e le attitudini degli allievi.
Il suo mandato concise con la fine del boom economico e non fu un periodo facile in quanto, per la prima volta, si delineò il fenomeno del terrorismo (strage di piazza Fontana), dilagò la contestazione giovanile studentesca e crebbero gli scioperi nel mondo del lavoro. Appena salito al Quirinale, il nuovo capo dello Stato fece bonificare il Palazzo dalle numerose microspie che erano state posizionate durante il mandato Segni e diffidò il proprio segretario particolare dall’avere qualsivoglia rapporto con i Servizi segreti, nei cui riguardi aveva delle motivate riserve. Infatti aveva scoperto dall’inchiesta sul Sifar, di essere stato spiato, lui ed i suoi collaboratori, e che ben 150.00 italiani erano stati schedati con notizie anche inventate di sana pianta, per cui nel 1965 fu disposto lo scioglimento della struttura in questione. Le principali linee-guida che orientarono gli interventi presidenziali, possono già evincersi dai discorsi di fine anno indirizzati agli italiani, nei quali non mancò mai di evocare la Resistenza, né l’economia, che non fu da lui mai considerata come una variabile indipendente nel sistema Paese, né come causa marxisticamente determinante in ogni campo dell’agire umano, bensì come parametro ineludibile nelle relazioni internazionali, come ed ancor più nella stabilità interna, ma nel contesto di un solido ancoraggio all’etica, connotato essenziale – essa sì – della dignità dell’Uomo, elemento centrale del socialismo democratico e riformista.
All’ aumento dei consumi, elemento di progresso economico, aveva contribuito la spesa del settore pubblico, in merito alla quale non mancò di far sentire alto e forte il suo richiamo sulla doverosa selettività degli impieghi del pubblico denaro, che dovevano seguire obiettivi mirati in un preciso ordine di priorità. Il 1966 venne funestato dalle alluvioni, riguardo alle quali il presidente osservò che, a fronte dell’ineluttabilità dei fenomeni naturali, era tuttavia possibile ridurne il rischio e le conseguenze “mediante un’adeguata politica di difesa del suolo, di sistemazione dei fiumi, di protezione civile”. L’anno in parola, oltre che dalle forze della natura, era stato sconvolto dal terrorismo altoatesino, che il 9 settembre aveva cagionato la morte dei finanzieri a Malga Sasso, e Saragat disse che era disgustoso constatare che, a più di vent’anni dal crollo dell’immonda dittatura nazista, i rigurgiti del nazismo trovassero ancora ricetto e protezione e gli assassini potessero agire impunemente. Anno cruciale per tutti gli appartenenti alla grande famiglia socialista, fu il 1968, come lo era stato drammaticamente il 1956 per l’invasione sovietica dell’Ungheria: ora era la volta della repressione della Primavera di Praga, che il 20 agosto vide la fine del coraggioso esperimento per una transizione dal comunismo liberticida al socialismo democratico. Il presidente affermò che la reazione che tali fatti violenti e luttuosi avevano provocato in tutti i Paesi, aveva assunto un’intensità senza precedenti nella storia del mondo, sì da lasciar sperare nell’avvento di una più alta e fattiva coscienza universale.
Altro anno drammatico fu il 1969, caratterizzato da un’organizzata “conflittualità permanente” con scioperi a catena e tafferugli, come quello di Battipaglia, in seguito al quale la sinistra più accesa chiese il disarmo delle forze dell’ordine. Disordini accaddero anche nelle Università, sino a quelli nella Statale di Milano, nei cui pressi fu assassinato il giovane agente di PS Antonio Annarumma, durante gli scontri con dei facinorosi di area marxista: le forze dell’ordine erano sì armate, ma con la consegna di non difendersi con i mezzi che avevano in dotazione. Il capo dello Stato scrisse di suo pugno un telegramma, in cui affermò che quel crimine odioso doveva ammonire tutti ad isolare e mettere in condizione di non nuocere i delinquenti, e doveva altresì risvegliare la solidarietà per coloro che difendevano la legge e le comuni libertà. Nel luglio il presidente avvertì una profondissima amarezza sul piano personale, in quanto proprio sul tema del disarmo delle forze di polizia, si ebbe l’ennesimo strappo della tela del socialismo italiano, che appena tre anni prima era stata faticosamente ricucita da Saragat e Nenni con la nascita del Psu.
Un’altra emergenza colpì profondamente la sua sensibilità personale ed istituzionale: i moti di Reggio Calabria, che avevano sconvolto tra il luglio del 1969 ed il febbraio del 1970 quella città, privata dello status di capoluogo regionale. Di quei moti aveva egli compreso che le reali motivazioni erano tutt’altro che “fasciste”, bensì derivanti da inquietudine antica in una città in cui c’erano ancora le baracche del terremoto del 1908: “Anzi – soggiunse – debbo dire che i reggini ed i calabresi sono stati troppo pazienti finora”. Tenendosi informato dell’evolversi della situazione, dopo aver appreso che dei reparti dell’Esercito erano stati inviati a Reggio Calabria, al termine di tempestosi colloqui telefonici con alcuni esponenti del governo Colombo, disse che se intervenivano le truppe, si sarebbe dimesso da capo dello Stato. In merito ai problemi della giustizia, dichiarò di essere assolutamente contrario al ricorso da parte dei giudici allo strumento dello sciopero, data la specialità del loro status di titolari di una funzione sovrana, come quella giudiziaria, nell’ambito di uno Stato che volle definire “strumento possente di vita morale”.
In questa concezione quasi “sacerdotale” della funzione giudiziaria, non poteva concepirne connotazioni ideologiche, per cui quando in seno al Csm nel 1968 si costituì la corrente di “Magistratura democratica”, il presidente disse: “Che tragedia! In Italia c’è una Magistratura borbonica e ce n’è un’altra maoista”. Nel ordine più in generale al rapporto tra politica e giustizia, Saragat affermò che “Dove entra la politica, la giustizia scappa dalla finestra”. Per quanto concerne le visite di Capi di Stato e di Governo al Quirinale, impartì rigorose disposizioni affinché i Servizi Segreti si guardassero dall’istallare microspie negli appartamenti riservati agli ospiti, in ossequio al principio di civiltà della sacralità degli stessi. Per converso, non consentì al presidente della Repubblica sovietica, né a quello americano, di approntare all’interno dello storico Palazzo alcun tipo di attrezzatura. Andò via dal Quirinale alla scadenza del mandato, il 29 dicembre 1971, lasciando il segno di un esercizio della funzione esemplare per equilibrio e correttezza.
Nel primo discorso da Senatore a vita il 25 febbraio 1972, entrando nel merito della piaga della disoccupazione, rimarcò una sorta di vizio strutturale dei sindacati, osservando che quando conducevano un’azione per l’aumento dei salari, senza tener conto del problema dei disoccupati – ossia si trinceravano nella visione degli interessi esclusivi di coloro che avevano un lavoro – non interpretavano in modo corretto le esigenze della solidarietà democratica e della coscienza di classe. Nel 1978, profondamente colpito dall’assassinio dell’onorevole Aldo Moro, in favore della cui salvezza aveva sposato l’opzione umanitaria sostenuta da Bettino Craxi e da Giovanni Leone, osservò nel profetico suo dolore: “Accanto al suo cadavere, c’anche il cadavere della prima Repubblica”. Al momento del decesso, avvenuto il 16 giugno 1988, Saragat teneva sul comodino le sue ultime letture: Dante, Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni, giganti non solo della letteratura, ma anche nella capacità di introspezione nei recessi dell’anima. I funerali religiosi ebbero luogo in Roma alla chiesa di Santa Chiara a piazza dei giochi delfici. Dopo la sua scomparsa, Giovanni Spadolini, commemorandolo al Senato, così ne sintetizzò la figura: “Rispettato da tutti, intimo di nessuno. Eugenio Montale ha potuto dire che di tutti i presidenti che abbiamo avuto, il socialista Saragat si può avvicinare al liberale Luigi Einaudi. Vedevamo in lui il custode, il garante della Costituzione; ed era già molto in un Paese che poteva dirsi incustodibile ed ingovernabile”.
In occasione del XXX anniversario della scomparsa del presidente Saragat[1], Sergio Mattarella ricordò che era stato uno dei “Padri della Repubblica, un uomo che ha fatto della fedeltà alla difesa dei principi di libertà, democrazia, giustizia sociale, la consegna della sua vita. Una visione, la sua, di quella “democrazia superiore” che sapesse “coniugare libertà individuali e interessi collettivi”. In merito al costante impegno europeista del predecessore ed al cammino compiuto nella realizzazione della Casa europea, l’oratore disse: “Sono certo che il presidente Saragat sarebbe orgoglioso di vedere quanta strada è stata percorsa sul sentiero da lui lucidamente indicato!”. Ne ricordò conclusivamente l’impegno a favore della non proliferazione nucleare, sviluppato in particolare a sostegno delle iniziative Onu per allontanare i rischi di conflitti letali, terminando la commemorazione con questi intensi accenti: “Alla sua memoria l’Italia rende omaggio, con la riconoscente testimonianza che si deve ai Padri fondatori”.
di Tito Lucrezio Rizzo