Iran, opinioni e sentenze

mercoledì 8 gennaio 2020


Le vicende politiche nei sistemi democratici, per la varietà delle posizioni che vengono manifestate, sono sempre difficili da decifrare ma quelle di politica internazionale lo sono ancora di più. Poiché la politica internazionale implica decisioni e azioni che coinvolgono più Paesi, va da sé che l’informazione di base non può che prendere le mosse da una precisa conoscenza, quanto meno, delle aree geografiche implicate e, magari, della storia almeno recente che quei Paesi hanno vissuto. Ma la democrazia non fa esami e tutti vengono promossi come se fossero ben preparati. Così anche oggi, e ancora una volta, un evento di politica internazionale, trasformatosi in atto militare, diviene oggetto di prese di posizione da parte di chiunque creda di capire le “vere” finalità del Presidente Donald Trump: c’è chi condivide e chi condanna senza appello, chi definisce Trump un irresponsabile e chi “sa” che le vere ragioni sono altre rispetto a quelle dichiarate dall’Amministrazione americana, cioè, al solito, il petrolio, le prossime elezioni statunitensi, l’imperialismo ecc..

Personalmente non ho nessuna esitazione ad ammettere che, le informazioni di cui dispongo, non sono sufficienti ad esprimere alcun parere preciso e circostanziato. Ma quanti controfirmerebbero questa posizione? I commentatori sembrano improvvisamente tutti laureati in geopolitica e così pure larga parte della gente comune anche se, gli uni quanto gli altri, avrebbero in non pochi casi molte difficoltà ad indicare i dati essenziali che caratterizzano l’area in cui l’Iran, l‘Iraq o l’Arabia Saudita si trovano, con quali Paesi confinano, quali siano le loro reali situazioni demografiche, religiose, politiche e militari. E, meno che meno, quali siano le attività dei loro servizi segreti e delle numerose e misteriose milizie di cui quei Paesi si servono da anni per quelle che, incautamente, potremmo definire le loro “relazioni internazionali”.

Naturalmente la cosa valeva ancor di più ai tempi di Cavour quando, senza ombra di dubbio, forse solo l’un per cento dei piemontesi avrebbe saputo descrivere cosa e dove fosse la Crimea, ma oggi la situazione non sembra diversa sia per il fatto che gli eventi riguardano tutto il globo nella sua enorme complessità sia perché le opinioni possono avvalersi di maggiore informazione ma solo su base volontaria e tendono a polarizzarsi attorno alle proposte di pochi più o meno autorevoli e oggettivi maître à penser. Sicché, il riferimento ad azioni terroristiche o comunque militari contro gli Usa o altri Paesi presenti nell’area, avanzato da Trump per giustificare l’azione appena compiuta, viene destituito di ogni fondamento preferendovi un’interpretazione più comoda e “corretta” che finisce per identificarsi con le affermazioni critiche sopra ricordate. Si pensa cioè che Trump abbia deciso solitariamente, senza ragioni fondate e senza alcun riguardo né per il proprio Parlamento né per i Paesi alleati, per il solo gusto di farlo e, quindi, per una sindrome sostanzialmente paranoica. Magari le cose stanno proprio così, ma chi ne ha le prove? Troppa gente si atteggia come se le avesse, passando sopra allegramente alla presumibile dovizia di informazioni e di uffici governativi che hanno sicuramente fornito al Presidente il quadro esauriente della situazione che andava maturando in Iran. Qui non si tratta di sposare le tesi americane o di condannarle sulla spinta di puri pregiudizi: si tratta invece, più razionalmente, di accettare l’idea che un Presidente, qualora avesse informazioni dettagliate e affidabili sulle intenzioni minacciose nei propri confronti o delle sue sedi diplomatiche, da parte di un Paese terzo, avrebbe non solo il diritto ma anche il dovere di ordinare un intervento armato.

Possibilmente con efficienza, efficacia e rapidità. Di sicuro senza indire “vertici”, istituire commissioni o promuovere “verifiche” all’italiana per dar modo al nemico di organizzarsi e sottrarsi all’attacco. D’altra parte, siamo sinceri, se anche Trump avesse parlato con Macron, Merkel e Conte cosa sarebbe cambiato? Forse avrebbe riflettuto sul concetto di “dialogo” e sull’importanza della pace? Ciò che ora accadrà è ovviamente incerto ma non c’è dubbio che, senza l’operazione americana a Bagdad il generale iraniano avrebbe dato ulteriore prova delle sue ben note attitudini aggressive.

Come ha scritto Thomas Friedman sul New York Times il 3 gennaio, è difficile stabilire se l’eliminazione di Soleimani “sia stata una buona idea oppure no e quali potrebbero essere le conseguenze”, perché “nel Medio Oriente spesso l’opposto di ‘cattivo’ non è ‘buono’ bensì ‘disordine’”. Forse le iniziative del generale ucciso passeranno in mano a qualcun altro, ma vale comunque la regola secondo la quale se fai una cosa non ne fai un’altra e, se le conseguenze di quella che fai sono brutte, ciò non significa che quelle dell’azione che non fai sarebbero state belle. In fondo, la problematicità delle della decisione politica sta tutta qui.


di Massimo Negrotti