giovedì 4 luglio 2019
Dalla fine della Prima Repubblica ha preso avvio un fenomeno del tutto ignoto nella precedente fase politica e istituzionale democratica italiana e che è andato via via accelerando nei lustri successivi, quello della pratica modificazione dei livelli decisori: che prima portavano a sintesi ampi e defatiganti confronti-scontri tra più correnti di pensiero (che erano, a loro volta, espressione di forme organizzate territoriali e umane, di sensibilità diverse insomma), che trovavano sempre la loro espressione in un voto nelle sezioni locali di uno stesso partito. E poi, via via salendo, a livello comunale, provinciale, regionale e nazionale.
Quel mondo ormai è del tutto scomparso oggi: dove leader solitari, mediatici, vivono con qualche fastidio (senza, peraltro, avere l’ardire di mettere la stessa in discussione con i referendum costituzionali) la classica tripartizione dei poteri che i nostri Padri costituenti hanno sapientemente calibrato tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
E non trovano l’ardimento di sottoporre la stessa al giudizio popolare perché sanno bene che chiunque si azzardi a mettere le mani su questa architettura, o prima o poi è destinato a fare una brutta fine. Già, perché all’italiano piace essere in qualche modo protetto da un sistema di contrappesi che è l’esatto contrario del proprio carattere impulsivo, sanguigno: in quella sorta di “culla con le sponde” che il nostro sapiente nonno ha costruito per consentire sì al pargoletto di dimenarsi, urlare, strepitare piangendo e rigirarsi un po’ di qua un po’ di là, ma senza mai cadere giù. Una sorta di cintura di sicurezza avvolge tutte le nostre intemerate politiche e di giudizio (moltiplicatesi ora con l’avvento del web, dove quel che dici vive per lo spazio di un millesimo di secondo) ed essa dovrebbe essere saldamente tenuta in mano dal presidente della Repubblica.
Questo assetto classico non pare affatto essere stato messo in discussione neppure da questo governo di rivoluzionari, alquanto rozzo nelle sue massime espressioni esecutive (il giallo e il verde), anche se esse vivono con grande fastidio quello che è, peraltro, un corretto e doveroso esercizio del sovranismo italico. Per cui finiscono per non comprendersi affatto le incursioni fatte “fuori campo” da parte del titolare del Viminale in riferimento alla conclusione della vicenda Sea-Watch.
Perché quello di cui, forse (ma è così?), il ministro dell’Interno non pare avere contezza è che il potere giudiziario potrebbe percorrere certi ambiti non tanto contrastando le strutture espressive del medesimo, quanto chiarendo meglio – con nuove leggi – l’ambito decisorio entro cui il magistrato di turno deve muoversi per significare fuor di dubbio alcuno la decisione presa.
Senza una preventiva azione di disboscamento normativo e che sia pure espressiva di una volontà lineare da parte del Parlamento, cosa si può pretendere dal magistrato di turno? Ecco che, alla fine, la responsabilità ricade sempre sulla politica.
Ma in politica non ci si guarda mai allo specchio.
di Sante Perticaro