martedì 18 giugno 2019
È innegabile che nel Partito Democratico esista un’anima “lib-lab” che ha ben compreso che i tempi stanno cambiando e che è anacronistico continuare a riferirsi a valori, per così dire, “operaisti”. D’altronde il mondo, l’economia e le classi sociali che un tempo facevano da serbatoio di consensi del vecchio Pci, oggi vivono (o, se più piace, si devono rassegnare a vivere) profonde trasformazioni che, come tali, devono essere affrontate.
Nicola Zingaretti - nel contempo presidente di una regione difficile come il Lazio e improvvidamente anche segretario nazionale del Pd - sembra aver deciso di farsi circondare da membri della segreteria nazionale del partito a lui più che fedeli o, quanto meno, “meno ingombranti”. Perché, dalle parti di questo Pd, l’anima “lib-lab” di cui sopra sembra quasi assomigliare ad un mostro da evitare senza indugio: per intendersi, è meglio Massimo D’Alema.
O forse l’idea del segretario-governatore è quella di imitare Matteo Salvini e accordarsi a sua volta con un ormai quasi spolpato Movimento 5 Stelle per portare via a Luigi Di Maio e soci quei consensi dei quali ancora godono. Una strada, quest’ultima, che nasconde però diversi pericoli, primo dei quali il rischio che i ruoli si invertano (cosa, del resto, già accaduta) e che siano i pentastellati a prosciugare i consensi piddini.
Per l’intero elettorato nazionale (il cui 50 per cento circa - percentuale della quale nessuno sembra accorgersi - non si reca oramai più alle urne) ci sarebbe forse bisogno di un movimento che si posizioni davvero al centrosinistra dello schieramento politico nazionale e che riesca a raccogliere i consensi di coloro che da anni non hanno più un riferimento politico. E se questo dovesse corrispondere ad una ennesima scissione nel Pd, tutto sommato non sarebbe poi una soluzione così traumatica: meglio separarsi che continuare a litigare inutilmente per anni.
di Gianluca Perricone