giovedì 13 giugno 2019
Alla fine Matteo Salvini per cominciare a dare segnali di guerriglia all’infido alleato a Cinque stelle ha usato proprio il “bastone condiviso” della nobile causa del mantenimento in vita di Radio Radicale. Unica emittente in Italia a svolgere un servizio pubblico in convenzione e non a percepire soldi di finanziamento pubblico come continuano a ripetere in malafede i gerarchi maggiori e minori dei grillini, per citare la buonanima dell’indimenticato e indimenticabile Massimo Bordin.
È ancora mattina presto, Fabio Martini de “la Stampa” ha appena finito di leggere la rassegna che per anni veniva fatta dall’ex direttore storico di Radio Radicale quando, nel notiziario delle 9, spunta un’Ansa che dà conto del voto in commissione Bilancio: la maggioranza va sotto sull’emendamento “salva Radio Radicale”. Ma sarebbe meglio dire che “vuole andare sotto”, su un emendamento del Pd Roberto Giachetti, che da giorni è in lotta attraverso sciopero della fame (dopo avere effettuato anche quello della sete per quasi 100 ore di seguito) fatto proprio anche dalla Lega salviniana che ne chiede la riformulazione solo per l’entità della cifra, tre milioni di euro e non i cinque e rotti che servirebbero. A quel punto, ci vuole solo la miope protervia del viceministro Laura Castelli per mettere il parere contrario – mentre un vero politico di razza avrebbe usato la formula “il governo si rimette alla Commissione” – e la frittata è fatta. Non solo passa l’emendamento in questione che garantirebbe, se approvato in aula, una breve proroga in attesa della gara di assegnazione della nuova convenzione, ma il governo va sotto. E succede il finimondo.
Con contorno di dichiarazioni surreali dei vari Luigi Di Maio e Vito Crimi, i gerarchi a Cinque stelle di cui sopra. Il primo delira su Facebook di stipendi altissimi pagati dalla emittente, cosa che per chi conosce la realtà di Radio Radicale è da sganasciarsi dalle risate. Parla di emolumenti fino a 100mila euro l’anno, senza specificare se siano netti o lordi. Ebbene, sentito da chi scrive, il direttore Alessio Falconio ammette di guadagnare 4mila euro netti al mese, che fanno poco meno di 50mila l’anno, che poi al lordo quasi raddoppiano. In realtà, uno stipendio da fame specie se rapportato a quelli in Rai dei vari direttori di testata, pagati per svolgere un servizio pubblico che viene però declinato in maniera sui generis. I redattori ordinari stanno tutti sui 2mila euro al mese. Non tutti netti.
Ma, evidentemente, Di Maio pensa che i giornalisti vadano pagati come i suoi amati “riders”. Peggio di lui solo Vito Crimi, che parla di “regalo da sette milioni di soldi pubblici”, mentre l’emendamento votato pure dai leghisti dopo la riformulazione, indica chiaramente la cifra di tre milioni. Insomma, un’esplosione atomica di demagogia e notizie false o falsate che poi sono la cifra del modo di fare propaganda politica un po’ di tutto il governo ma, segnatamente, della componente grillina. Salvini, che secondo i più informati vorrebbe andare al voto in autunno per rinviare l’incombenza della finanziaria della verità, ha così aperto le ostilità dopo settimane di traccheggiamenti. E per il proprio fine ha usato il mezzo più nobile disponibile su piazza: salvare un’emittente che – a parte Crimi e Di Maio – tutto il resto del mondo desidera che rimanga aperta a svolgere un compito indispensabile che certo nessun blog di Grillo o Casaleggio potranno (e nemmeno vorranno) mai garantire.
Ma non c’è peggior sordo di chi faccia finta di non sentire e non c’è peggiore sciocco di chi faccia finta di esserlo.
di Dimitri Buffa