Salvini, l’influencer che non seppe farsi statista

venerdì 3 maggio 2019


La scuola politica cui sembra essersi formato Matteo Salvini non è di certo quella che sforna statisti, sia pure padani. Piuttosto appare qualcosa di simile al contesto mediatico che genera i cosiddetti “influencer”, tipo Fedez o Chiara Ferragni.

Vivendo nostro malgrado l’epoca in cui questo nuovo tipo di “guitti senza arte né parte” va purtroppo per la maggiore, la scelta di avere dei seguaci, o followers che dir si voglia, invece che dei ragionevoli elettori, finora si è dimostrata vincente. A Salvini piace vincere facile. E avere dei “fan” che ti seguono qualunque idiozia tu dica, qualunque bugia , sul breve periodo indubbiamente rende. Resta da vedere se poi potrà mai evolversi a statista e moderato da ultrà da stadio che la spara grossa. Quando finirà l’effetto de “gli italiani prima”, della “castrazione chimica”, della “difesa sempre legittima” e delle “pene triplicate” per qualunque reato – e quando la Corte costituzionale inizierà pian piano a fare a pezzi tutte le leggi manifesto di questo squallido Esecutivo – potrebbe cominciare anche un lento a inesorabile declino. È andata così anche per Matteo Renzi, che comunque sia era di uno spessore politico molto superiore a quello di questo Salvini. Che, detto per inciso, il 40,8 per cento alle Europee deve ancora vederlo. Finora le mirabolanti vittorie gli sono state solamente promesse dai sondaggi. Che cambiano da un giorno all’altro anche senza che gli stessi sondaggisti se ne rendano conto. Quel che fa paura di questi influencer da curva da stadio prestati alla politica – andrebbero prontamente restituiti – è il fluttuare delle opinioni unito all’eterno ritorno dell’uguale. Come il proibizionismo dalla faccia feroce.

I razionalisti si domandano perché aprire alla legalizzazione della prostituzione e alla riapertura delle case chiuse e non alla legalizzazione della cannabis – praticata ormai in quasi tutti gli Stati Uniti d’America che dopo decenni di “war on drugs” si sono finalmente resi conto che quell’atteggiamento era solo un regalo ai profitti della mafia – generando nelle persone ragionevoli quasi una repulsione intellettuale verso simili incoerenze? Semplice: quelli come Salvini vanno incontro agli istinti più bassi delle persone. Sono i profeti delle bestemmie proferite da chi in autobus si sente mettere una manomorta sul sedere piuttosto che constatare l’alleggerimento del portafoglio o del telefonino da parte di una mano lesta.

Con Salvini il dibattito, almeno a Roma, è come se si fosse spostato dalle aule del Parlamento o del governo, ai sedili e ai mancorrenti del 64. Quello che porta dalla Stazione Termini a San Pietro. E se si vive su un autobus se ne respira anche l’atmosfera, che non è precisamente quella dello stato di diritto ma neanche quella degli assi cartesiani. Vince chi la spara più grossa. Ieri Salvini se la prendeva con la finta cannabis, quella che ha fatto proliferare migliaia di shop in tutta Italia, come business della trasgressione “decaffeinata”. La gente si “accontenta” di farsi finte canne e lui invece che rifletterci, e assecondare un trend che potrebbe portare paradossalmente alla diminuzione di coloro che si fanno quelle vere, eccolo azzannare la realtà per criminalizzare la stessa pianta della canapa, dalla quale come è noto si traggono anche tessuti di uso comune. Una specie di ideologia dell’ignoranza e dell’impostura che proprio nei discorsi da bar e da autobus fa una presa “che levati”, come dicono a Roma. Resta da vedere però quanto, tra dirette Facebook a getto continuo e colazioni del campione buttate sui social tutti i giorni, tutto ciò prima o poi verrà a noia. Se non a nausea.

Salvini che gioca a fare il “truce”, o il “rozzo”, sa bene di non esserlo veramente. E che l’effetto “marziano di Flaiano” è sempre dietro l’angolo. E che si manifesterà con pochissimi segnali di preavviso. Perché poi quando il giocattolo si rompe e il tuo atteggiamento viene veramente a noia non c’è più nulla da fare. E ogni “bel gioco” in questo mondo “dura poco”.


di Dimitri Buffa