lunedì 29 aprile 2019
Sulla Libia il premier Giuseppe Conte non smette di deludere. Da Pechino, dove si trovava per il secondo Forum della “Belt and Road Iniziative”, cioè la nuova via della seta cinese, il Capo del Governo ha fatto sapere che “L’Italia non è né a favore di Sarraj né di Haftar, ma del popolo libico”.
Tattica pilatesca che annuncia l’improvvisa giravolta italiana nel braccio di ferro in corso in Libia e che restituisce l’amara rappresentazione di un Paese voltagabbana, debole, pavido, incapace di tenere testa al rincorrersi degli eventi dalla medesima pozione assunta inizialmente. Il neutralismo abbracciato da Conte, dopo mesi di sostegno dichiarato al presidente tripolino Fayez al-Sarraj, non reca nulla di buono. Il premier italiano finge di credere che vi sia ancora una possibilità di dialogo tra le fazioni in lotta che eviti l’escalation bellica. O è cieco o ha problemi di decrittazione del reale. La guerra in Libia non è un’ipotesi remota ma un dato di realtà. Se è stato superato il punto di non ritorno non si è trattato di caso fortuito, d’incidente imprevisto ma di scelta consapevole e studiata del generale Khalifa Haftar di rompere lo stallo diplomatico e di passare all’attacco onde chiudere in via definitiva la partita con il nemico asserragliato a Tripoli. Contro tutti i pronostici, però, il “debole” presidente del Governo di Accordo Nazionale, Fayez al-Sarraj, ha trovato forze e risorse per parare il colpo a tradimento sferratogli da Haftar e per predisporsi a resistere ad oltranza all’avanzata delle truppe di Bengasi. In tale scenario non c’è dialogo che tenga, entrambe le parti adesso puntano a vincere o rischiano di perdere, tertium non datur. Ragione per la quale gli appelli al dialogo di Conte appaiono quanto meno fuori luogo e i suoi tour in cerca di ascolto tra i vari capi di Stato, coinvolti nella crisi libica, sono a dir poco patetici. Chiedere aiuto al russo Vladimir Putin e all’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, entrambi sponsor di Haftar, per ottenere in cambio una laconica adesione (a chiacchiere) ad una soluzione pacifica del conflitto in atto, non ha alcun senso. Per fermare il treno della guerra gli sponsor di Haftar dovrebbero convincere il generale a ripiegare con il suo esercito entro i confini della Cirenaica. Cosa che il generale non farà mai di propria iniziativa, dopo che con le sue truppe ha varcato l’ideale Rubicone libico. In compenso, la voglia di apparire equidistante dell’Italia ha notevolmente innervosito i leader di Tripoli che finora si sentivano protetti dall’appoggio di Roma.
Complimenti mister Conte, con una fava ha fatto scappare due piccioni: Haftar continuerà a preferire il feeling con i suoi sponsor alle sue tardive prese di distanza e al-Serraj, sentitosi tradito, cercherà migliori alleati che lo sostengano nello scontro decisivo con Haftar. L’ultima scelta del Governo giallo-blu è il peggio che si potesse sperare per gli interessi nazionali italiani. Al punto che sorge un sospetto: presidente Conte, ma lei ha cognizione di quali siano gli interessi del nostro Paese in Libia? Per come sta gestendo la partecipazione alla crisi sembrerebbe di no. Il Governo giallo-blu si ostina a non fare l’unica cosa che avrebbe potuto mettere in difficoltà gli attori in campo costringendoli a un dialogo anche contro le loro volontà: rafforzare il contingente tricolore già presente in Tripolitania. I militari italiani, infatti, che operano sul territorio di Misurata, rappresentano un grosso ostacolo diplomatico e strategico per il generale Haftar il quale non a caso, volendo assicurarsi campo libero, ha intimato all’Italia di ritirare le unità militari impegnate nella missione bilaterale Miasit. Dio non voglia che Conte, pensando di fare un’altra mossa astuta, decida di aderire all’ordine impartito da Haftar. La fuga dell’Italia dalle sue responsabilità verso il Governo di Accordo Nazionale rischierebbe di spalancare la porta ad altri attori di scenario interessati a mettere piede sul suolo libico. Come il presidente della Turchia, schierato a sostegno del governo di al-Sarraj. Recep Tayyip Erdogan ha di recente dichiarato che è pronto a qualsiasi opzione pur di evitare una nuova Siria al centro del Mediterraneo. Ciò significa che, qualora la situazione dovesse precipitare, il potente esercito turco reagirebbe per bloccare l’avanzata di Haftar. Probabilmente, il target di Ankara potrebbe essere la base aerea di decollo dei droni che di notte bombardano obiettivi civili a Tripoli allo scopo di indebolire, anche psicologicamente, l’assetto di difesa predisposto da al-Sarraj. Ma un intervento turco potrebbe scatenare reazioni a catena tali da ripercuotersi direttamente sui vari attori esteri della crisi libica che finora sono riusciti a non palesare la loro presenza sul campo di battaglia. Potrebbero essere proprio i droni il problema. Il sito on-line “Analisi Difesa” osserva che “Nessuno dei contendenti libici dispone di droni né della capacità di impiegare di notte i vecchi Mig 21, Mig 23 e Mirage F.1 in dotazione e che fecero parte dell’Aeronautica di Muammar Gheddafi, aerei peraltro privi di munizionamento di precisione. L’ipotesi più probabile è che in appoggio alle forze di Haftar vengano impiegati i droni cinesi armati Wing Loong II in dotazione alle forze aeree degli Emirati Arabi Uniti che da tempo li hanno schierati ad Aden (Eritrea)”.
Un raid aereo turco sulla base libica di al-Khadim, nella Cirenaica controllata da Haftar equivarrebbe a un colpo assestato all’alleato emiratino di Haftar. Con quali conseguenze per l’intera area nordafricana e mediorientale? E il nostro premier? Conta di cavarsela anche in questo caso con una telefonata al leader turco per “condividere l’auspicio di una soluzione di pace”? Illustre presidente Conte, eviti di rendersi ridicolo perché agli occhi del mondo la faccia non è soltanto la sua ma di tutto il Paese che è chiamato a rappresentare. L’Italia un piede sul campo libico lo ha già, cosa si aspetta a mettere anche l’altro?
di Cristofaro Sola