Commissione banche: ieri, oggi, domani

venerdì 29 marzo 2019


Il presidente della Repubblica (Sergio Mattarella) ha esternato a Roberto Fico (presidente della Camera) e Maria Elisabetta Casellati (presidente del Senato), e senza tanti complimenti, la profonda preoccupazione che la “Commissione d’inchiesta sulle banche” potrebbe minare i pilastri della vigilanza bancaria: ovvero quei vertici di Bankitalia storicamente vicini a Mario Draghi e Romano Prodi ed alla buonanima di Azeglio Ciampi. Il timore è che la commissione distrugga i rapporti tra Italia e il “sistema bancario europeo”: ovvero quella congerie di rapporti che, dalla Banca centrale europea alla Commissione di Bruxelles, arrivano sino ai grandi investitori mondiali ed ai vari patron delle agenzie di rating. Tutto un mondo che (forse nei timori di Mattarella) potrebbe di rimando chiedere un fallimento dell’Italia gestito da una corte europea. Tutto questo terremoto il Colle vorrebbe evitarlo, almeno sotto Mattarella. Le remore del Quirinale vengono servite alla stampa col solito monito “timori che una commessione d’inchiesta parlamentare possa minacciare l’indipendenza di Banca d’Italia”.

Il Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio, grande sponsor della commissione d’inchiesta, parla di “mettere giustizia sociale al centro delle dinamiche bancarie che hanno bruciato i risparmi degli italiani”. Ma il Quirinale probabilmente eserciterà il diritto di veto sulla commissione: qualche beninformato avrebbe ipotizzato che, Mattarella abbia chiesto di visionare i filmati in cui Gianluigi Paragone (ieri conduttore della “Gabbia” ed oggi senatore dei 5 Stelle) spiegava, insieme al giornalista Paolo Barnard, che proprio i cosiddetti poteri bancari avevano orchestrato una manovra (concordata in ambito internazionale) per bruciare i sacrifici degli italiani. Una manovra ordita per far cadere Silvio Berlusconi e far salire Mario Monti? Questo non c’è dato saperlo, di certo è che, secondo il Paragone pensiero, i risparmi sarebbero stati bruciati tra il 2012 ed il 2015. Mattarella teme proprio i poteri (ed il mandato) di questa commissione sulla banche, differente da quella già presieduta da Pier Ferdinando Casini: infatti gli addetti ai lavori dicono “quella di Casini aveva semaforo verde di Commissione Ue e Bce, su quella presidenza Paragone c’è il non gradimento personale di Mario Draghi”. Una commissione che svelerebbe perché l’Italia è da circa otto anni una “democrazia bancariamente protetta” (equipollente delle militarmente protette di Nord Africa e Sud America): quello che lì fanno i militari qui lo fanno le banche. Una commissione che ci racconterebbe chi ha ordinato a cantieri nautici, consorzi d’imprese ed emettitori di bond di bruciare 400 miliardi di euro dei piccoli risparmiatori? Arriverebbe a tanto il panzer Paragone o lo fermerebbero prima? Di fatto Casini (predecessore che utilizzò la commissione per ottenere la candidatura col Pd) non faceva paura al “sistema bancario”: aveva persino giustificato che la Boschi incontrasse l’allora vertice Consob (Vegas) per parlare di Banca Etruria, e prima delle otto del mattino e dopo le otto di sera. L’atteggiamento di Mattarella rimanda i più grandicelli a quasi quarant’anni fa.

Molti sono in questo momento i paragoni (Paragone ancora non c’è) tra la commissione parlamentare sulle banche che è stata presieduta da Pier Ferdinando Casini e quella dei primi anni Ottanta sulla P2: quella che ebbe poi ad acclarare l’intrigo bancario del Banco Ambrosiano di Calvi. Sostanziale solo una differenza: la commissione sulla P2 deflagrava e realizzava un regolamento di conti (interno a politica ed affari) in un Italia forte politicamente ed istituzionalmente, con una disoccupazione irrisoria ed economia trainante, con un corpo sociale che credeva nel voto e mai avrebbe invocato soluzioni rivoluzionarie di piazza. La classe dirigente del Paese nel 1980 c’era, invece oggi è invisa e screditata. La commissione presieduta da Pier Ferdinando Casini veniva varata nell’Italia più simile alla Repubblica di Weimar, dove la miseria s’incontra ad ogni angolo di strada e sulle migliaia di truffati dalla banche popolari incombe pure la scure di servizi segreti e vari organi di polizia: perché si teme che i truffati possano animare azioni violente contro parenti ed amici di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi coinvolti nei vari crack, come nei confronti di Bernaschi e sodali di Carige, Vicenza, Marche, Chieti... Popolare di Bari. Ieri, nei primi anni Ottanta, era stato sufficiente un appello al paese sano e pronto ad andare avanti. Oggi quell’Italia non c’è più, soprattutto non c’è più l’autorevolezza della classe politica, la speranza che le cose si possano mettere a posto.

Di fatto Mattarella teme la commissione sulle banche possa inficiare il futuribile utilizzo di Mario Draghi come salvatore politico dell’Italia. In questo scampolo di vera fine della Seconda Repubblica, il crack delle banche defenestra Draghi come “riserva illustre della Repubblica” (abito cucitogli addosso da Berlusconi, Monti, Renzi e compagni), quindi deteriora l’immagine politica della Bce. La commissione parlamentare sulle banche, che in epoca Gentiloni veniva gestita da Casini, è stata percepita dai truffati come una sorta di commedia teatrale: presieduta da un politico screditato, ma utile a coprire il grande inganno. Una commissione (quella Casini) che ha permesso all’Ue nuovi giri di vite e rigore in nome dei conti europei.

Di fatto il “patriota” Draghi aveva volutamente ignorato la nota sulle banche truffaldine: “C’è una nota della Vigilanza di Bankitalia che nel 2009, al termine delle due ispezioni condotte sulla Popolare di Vicenza, informa il governatore Mario Draghi dei problemi emersi e ancora irrisolti sull’istituto guidato da Gianni Zonin. Sottolineando tra questi il prezzo delle azioni troppo elevato rispetto alla redditività della banca” notizia deflagrante, pubblicata su La Stampa da Gianluca Paolucci, che continua “... il suo allineamento a valori più congrui avrebbe causato problemi all’istituto, con evidenti ricadute sulle vendite di azioni da parte dei soci e di conseguenti rischi per la stabilità della banca”.

Bankitalia per motivi d’opportunità politica scelse di non fare nulla, addirittura di non comunicare alla Consob i risultati dell’ispezione fatta nei conti della banca vicentina: tutto per non allarmare investitori e risparmiatori su come s’erano volatilizzati i loro soldi. Lo Stato, quindi noi contribuenti, siamo stati costretti dai governi-fantoccio (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) ad accollarci il salvataggio di Popolare Vicenza, Veneto Banca, Etruria, Carige… e di tutte le banche che hanno finanziato i partiti amici dei camerieri dell’Ue.

Con Paragone emergerebbe che nelle banche parenti e sodali partitici usano impropriamente il risparmio degli italiani? In troppi hanno detestato la Prima Repubblica. In tanti oggi ricordano che, quelli della P2 ai tempi dell’Ambrosiano s’attenevano alle regole ed avevano dei limiti, invece il cosiddetto nuovo s’è dimostrato brutale e provinciale... con spiccato accento dell’entroterra toscano.

Ieri, nel marzo 1979, quando il governatore della Banca d’Italia (Paolo Baffi) ed il vicedirettore incaricato della vigilanza (Mario Sarcinelli) venivano accusati dalla Procura di Roma di “interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento personale”, l’Italia era incredula. Sarcinelli veniva arrestato, e scarcerato solo a seguito della sospensione dagli incarichi di vigilanza. Baffi evitava il carcere per limiti d’età. Nel 1981 entrambi venivano completamente assolti: la commissione d’indagine faceva poi emergere che l’incriminazione era stata pilotata da pezzi della P2 (in combutta coi servizi segreti) per impedire alla Banca d’Italia di vigilare nei confronti del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Da quale recondito salotto potrebbe essere partito l’ordine di non vigilare sui recenti crack bancari? A questa domanda sembra non si voglia rispondere, e per non molestare i manovratori graditi a Bce e Ue. È questo il timore di Mattarella?

A distanza di quasi trentanove anni, è oggi chiaro che lo scandalo del Banco Ambrosiano era funzionale ad avviare nel luglio 1981 (per decisione dell’allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta) la separazione fra lo Stato (ministero del Tesoro) e la Banca d’Italia (banca centrale e d’emissione). Da quel momento l’istituto non era più tenuto ad acquistare i titoli (Bot e Cct) che il governo non riusciva a piazzare sul mercato, cessando quindi la monetizzazione del debito pubblico italiano. Decisione allora osteggiata solo dall’allora ministro socialista delle finanze Rino Formica. Resta il fatto che il divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia viene da parte autorevole dell’economia considerato come il fattore che ha fatto esplodere il debito pubblico italiano.

Chissà se una futuribile commissione d’indagine sulle banche avrà mai il coraggio di rivelare agli italiani perché scoppiava Tangentopoli: per evitare che Bettino Craxi riportasse il debito pubblico al quinquennio ’60/65, affrancandoci dal ricatto di quella “finanza internazionale” che oggi spaventa Mattarella e pone un veto a Paragone.


di Ruggiero Capone