martedì 3 luglio 2018
“Parlo come Padoan”. “Rivendico una continuità ovvia”. “Se un governo fa saltare i conti non è che faccia il bene dell’Italia”. Le frasi che hanno riportato alla triste realtà i marziani a Cinque stelle, e qualcuno anche nel mondo leghista - già più razionale - di certo non sono mancate oggi durante l’audizione in Parlamento del ministro dell’Economia Giovanni Tria. Tradotto in termini comprensibili anche da Giggino Di Maio e i suoi mitici followers significa non c’è trippa per gatti. L’unica concessione al deficit è la promessa di “non manovra correttiva”. Contrariamente alle linee guide lasciate ai posteri dal suo predecessore Carlo Padoan. Ma anche qui, chi vivrà vedrà.
Per il resto una doccia fredda di realismo che rischia di far apparire ancora più un bluff il mitico “decreto dignità” voluto dal ministro Di Maio, sostanzialmente solo per inficiare quel po’ di flessibilità conquistata dalle imprese negli ultimi anni e per lanciare l’ennesima inutile crociata proibizionista contro il gioco d’azzardo. Uno scherzetto che rischia di mettere in crisi il calcio italiano e di fare perdere qualche decina di migliaia di posti di lavoro nei prossimi tre mesi. Oltre ai sei, sette miliardi annui di tasse per lo stato. D’altronde Di Maio ieri sputava sui nuovi posti di lavoro precari - ma almeno esistenti - creatisi, comunque sia, dal varo del governo Gentiloni a l’altro ieri. Presto le imprese lo accontenteranno, qualche altra minaccia senza senso di multe e di sanzioni, qualche altra bravata sul job act, qualche altra crociata moralistico forcaiola alla Grillo, e il gioco sarà fatto. Niente più posti di lavoro né stabili né precari.
Comunque, se ancora non si fosse capito, il governo del (relativamente) fare è quello di Tria, quello del “beatamente declamare” è appannaggio di Di Maio, e in mezzo lo stesso Matteo Salvini costretto a parlare d’altro - generalmente rom o migranti - o ad arrampicarsi sugli specchi quando gli si chiede conto dell’abrogazione della legge Fornero. Magari si andrà avanti così per i prossimi due anni. O forse fino a fine legislatura. Come è accaduto a Roma con il governo Raggi. E come continuerà ad accadere.
di Dimitri Buffa