Il destino di FI

venerdì 1 giugno 2018


Dunque, Governo fatto. La pressione dell’opinione pubblica e la paura per la schizzata dello spread hanno spinto leghisti e grillini a mettere da parte i tatticismi e a trovare l’intesa. Ora che la partita è conclusa le tifoserie di tutte le squadre partitiche possono ripiegare gli striscioni e tornare a casa. Non è più tempo per dividersi tra chi dice “di certo ce la faranno” e chi invece pronostica disastri climatici e cavallette. Saranno i fatti a determinare il giudizio che il Paese darà al connubio giallo-blu. Alle opposizioni tocca di ricalibrarsi. Della sinistra non c’è molto da dire. Hanno miseramente fallito al governo e ora ne pagano le conseguenze. È presumibile che la truppa piddina si lanci allo sbaraglio di un’opposizione frontale pregiudizialmente delegittimante dell’avversario, a prescindere dai contenuti dell’azione di governo. Non hanno altra scelta se non quella di puntare allo sfascio del Paese per avere una chance di ripescaggio in un futuro prossimo in veste di “male minore”. Ma ciò che è vero per la sinistra non lo è per la destra.

È inutile tacere la verità: il centrodestra come “felice anomalia” che ha ispirato la “Seconda Repubblica” non esiste più. La scomposizione dell’alleanza contiene degli elementi dissolutivi che non possono essere negati. La scelta della Lega di dare vita, con i grillini, all’esperimento degli antisistema alla guida del sistema non è in alcun modo comparabile alla scelta fatta da Silvio Berlusconi nel 2013 di appoggiare il Governo di Enrico Letta. In quel caso si consentiva la temporanea sospensione della coalizione, giustificandola con l’insorgenza di una causa di forza maggiore: la condizione emergenziale del Paese. Il cambio momentaneo di rotta non comportava alcuna modifica di assetto rispetto al baricentro ideologico dell’asse portante del centrodestra. Nell’odierna vicenda, invece, la Lega ha scelto di ridefinire la propria visione del futuro della società italiana adottando i codici interpretativi della realtà tipici del populismo. Soltanto grazie a tale cambiamento di visione Lega e Cinque Stelle hanno trovato un terreno comune per l’alleanza. Non sappiamo quanto durerà tale esperienza. Di certo essa si propone di coprire l’intera legislatura. Se il patto dovesse reggere fino al 2023 è di tutta evidenza che incrocerà un mondo totalmente diverso da quello attuale.

Forza Italia deve prendere atto che una lunga stagione è finita e bisogna voltare pagina. Il fatto che poi si continui a governare insieme alle Lega in alcune regioni del Nord e in molti Comuni non muta la sostanza delle cose: le alleanze di territorio non hanno il medesimo orizzonte prospettico che ha il governo della nazione. L’impegno che attende il partito berlusconiano è, in primo luogo, di ridefinire i contorni del proprio blocco sociale di riferimento. In soldoni, Forza Italia deve domandarsi: “Chi vogliamo rappresentare?”. È questione nodale. Se non si sa prima a chi rivolgersi non si potrà avere contezza del come riposizionarsi. Gli anni della crisi hanno spinto i ceti medi tradizionali lontano dalla rappresentanza sostenuta dal pensiero laico e liberale. Il blocco dell’ascensore sociale e l’allargamento della forbice della ricchezza hanno accresciuto un sentimento di rancore sociale che si è esteso oltre gli steccati tradizionali della divisione di classe. Per paradosso, la crisi ha favorito sì una forma di ricomposizione comunitaria, ma in negativo sulla base del malessere, materiale e spirituale, che ha attraversato trasversalmente la società italiana. Non ci sono stati più padroni benestanti da una parte e lavoratori sfruttati dall’altra, ma garantiti dagli effetti degenerativi prodotti dalla globalizzazione sulla qualità della vita individuale e collettiva contro le sue vittime dall’altra. Salvini lo ha compreso per tempo e ha riposizionato la Lega sulle parole d’ordine della lotta al mondialismo e della riappropriazione della sovranità nazionale. Il Partito Democratico, invece, ha compiuto una scelta contraria, benché minoritaria, decidendo di rappresentare esclusivamente gli interessi dei cosiddetti “garantiti”.

Il Movimento Cinque Stelle, che è nato con la missione di drenare lo scontento accumulato negli interstizi della società generalmente non raggiunti dall’azione della politica, ha conseguito il suo scopo. A questo riguardo, per quanti motivi critici si possano sollevare all’indirizzo dei grillini bisogna riconoscerne l’utilità per aver evitato che la protesta sociale si canalizzasse verso forme ribellistiche extra-legali. Se l’infinita teoria dei “Vaffa!” di Beppe Grillo è servita a evitare il sangue per le strade, teniamoci pure il turpiloquio: meglio quello rispetto alle pistolettate o alle bombe di nuove o vecchie Brigate Rosse.

Forza Italia, invece, ha ritardato la scelta di campo, consentendo che crescesse nella considerazione dell’opinione pubblica la percezione di una contraddizione in termini nell’essere insieme un po’ populista e un po’ merkelliana. Nel momento in cui la domanda di coerenza rivolta alla classe politica si è fatta più stringente, la versione “Omnibus” di Forza Italia è andata in crisi di consenso. Il movimento azzurro dovrà affrontare una nuova traversata del deserto collocandosi all’opposizione del governo. Ma dovrà fare molta attenzione perché il pericolo gli viene soprattutto da sinistra. La tentazione a fare corpo con il segmento “dem” sarà forte. Nondimeno fallace. Il Partito Democratico non ha alcun interesse a legittimare Forza Italia nel ruolo di partner d’opposizione. Al contrario, la proposta messa in campo in queste ore di dare vita a un più largo “fronte repubblicano” punta a sottrarle la residua base di consenso. Matteo Renzi e compagni non sono amici della destra liberale alla quale guardano soltanto per sfruttarne le potenzialità di bacino elettorale. Essi vanno combattuti con la stessa intensità che verrà spesa per contrastare la compagine governativa. Risorgere si può, ma senza aggrapparsi ad alcuna scialuppa. Che rechi le insegne leghiste o piddine fa lo stesso.


di Cristofaro Sola