martedì 22 maggio 2018
Il contratto di governo fra M5S e Lega (che forse sarebbe più corretto chiamare programma di governo), dopo avere affermato che “la questione migratoria attuale risulta insostenibile per l’Italia” e che “si deve puntare alla riduzione della pressione dei flussi sulle frontiere esterne”, dichiara, senza mezzi termini, che “è necessario il superamento del Regolamento di Dublino”.
Ma cosa è esattamente il Regolamento di Dublino? È una convenzione internazionale frutto di accordi succedutisi nel tempo, dal 1990 al 2013 (Dublino I, Dublino II e Dublino III), che identifica quale Stato sia competente all’esame della domanda d’asilo dei cittadini stranieri entrati irregolarmente da uno Stato non membro della Comunità europea. Il problema si pose in maniera pressante in seguito al crollo del blocco dei Paesi dell’Est, che provocò forti ondate migratorie sul confine tedesco. Il Regolamento stabilisce che la richiesta d’asilo venga esaminata dallo Stato in cui il richiedente asilo ha fatto il proprio ingresso nell’Unione europea. Quindi, se il richiedente ha effettuato il suo ingresso nello spazio europeo dall’Italia, sarà l’Italia a dover esaminare la richiesta d’asilo; se è entrato dalla Spagna, la competenza sarà spagnola e via dicendo. È la cosiddetta regola del primo ingresso.
È ovvio che questa formulazione favorisce una distribuzione ineguale delle richieste d’asilo fra gli Stati membri. Se negli anni ’90 il problema gravava anzitutto sulla Germania, le trasformazioni del contesto mediterraneo, africano e mediorientale (Siria in testa), hanno fatto dell’Italia il Paese di primo ingresso per molti richiedenti, caricandoci così di flussi difficilmente sostenibili.
È certamente auspicabile una rimodulazione del Regolamento in senso più favorevole all’Italia, dal momento che è logico pensare che il Mediterraneo continuerà a costituire la principale via d’ingresso anche negli anni a venire. La riforma del Regolamento ha ricevuto l’appoggio del Parlamento europeo il 16 novembre 2017, che si è pronunciato per il superamento del principio del Paese di primo accesso, sostituendolo con quello del ricollocamento per quote a cui tutti gli Stati sono tenuti a partecipare. Se l’ipotesi avrà seguito, diventerà irrilevante il punto d’ingresso, ma il percorso pare ancora lungo e in particolare per l’opposizione di alcuni Stati, come Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia, che continuano a negare la loro disponibilità a rivedere gli accordi.
Tuttavia, in attesa che si possa aprire un auspicabile e costruttivo confronto europeo su questo tema, qualcosa si può fare già oggi, senza alcuna modifica del Regolamento, in via amministrativa. Esiste, infatti, una forte disparità di comportamento fra le commissioni territoriali italiane che esaminano le richieste d’asilo e gli omologhi organismi esteri: capita spesso che lo straniero venga identificato in altri Paesi europei e rispedito in Italia, quale Paese di primo approdo, per l’esame della sua richiesta d’asilo. Questo comportamento è perfettamente legittimo in base al Regolamento di Dublino e riguarda casi molto frequenti.
Viceversa, nelle commissioni territoriali italiane vige la prassi secondo cui, una volta preso in carico il richiedente asilo, la sua richiesta viene esaminata anche se egli risulta indiscutibilmente entrato in Europa da un altro Paese aderente e vi abbia soggiornato prima di giungere in Italia. Così facendo, l’Italia disapplica (spesso) il principio di primo ingresso, a differenza dei nostri partner europei, che non esitano ad applicarlo nei confronti del nostro Paese. Anche la prassi diffusa in Italia è legittima, dal momento che l’art. 17 stabilisce che ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda pur non essendo competente secondo i criteri previsti dal Regolamento. Tuttavia, essa appare controproducente e, certamente, non in linea con l’orientamento seguito dagli altri Stati aderenti.
Un’applicazione più stretta del Regolamento di Dublino, nelle more di una sua modifica che certamente non è dietro l’angolo, contribuirebbe ad alleggerire la pressione sull’Italia (nonché il lavoro delle commissioni territoriali) e a realizzare una più equa ripartizione delle richieste fra tutti gli Stati, sulla scia della volontà espressa anche dal Parlamento europeo.
di Andrea Cantadori