Cercasi exit strategy

venerdì 4 maggio 2018


Scrivere di politica in questi tempi cupi è quanto mai complicato visto che da due mesi assistiamo allo spettacolo stucchevole di un Parlamento trasformato in un pascolo per sfaccendati. I leader politici brancolano nel buio alla ricerca di una mandrakata buona per uscire dalla frustrazione di non trovare una maggioranza utile per formare un governo con un’alchimia che nel contempo assicuri di non farsi troppo male passando per incoerenti. Ma tant’è, questo è il meccanismo di voto che la legislatura precedente ci ha consegnato, ben sapendo che avrebbe portato a uno stallo quasi certo.

Eppure, secondo l’opinione prevalente, le elezioni del quattro marzo ci avrebbero verosimilmente consegnato due vincitori (Lega e Movimento 5 Stelle) e uno sconfitto (Partito Democratico) da relegare obbligatoriamente all’opposizione. Secondo noi questo ragionamento è l’emblema dell’ignoranza un po’ cialtrona della politica italiana che non sa nemmeno più riconoscere tre minoranze (i grillini, il Pd e il centrodestra). Se queste elezioni avessero davvero incoronato dei vincitori, allora perché costoro non sarebbero in grado di formare un governo?

A una simile obiezione il prototipo di cialtrone generalmente risponde che il punto è proprio questo: i due vincitori (Lega e Cinque Stelle) non sono in grado di formare un governo e per questo hanno fallito. Peccato che una legge proporzionale, cioè sprovvista di premi di maggioranza o del principio in base al quale chi prende un voto in più degli altri vince, decreti un vincitore solo nel caso in cui una coalizione (o un partito) si aggiudica la metà più uno dei seggi.

Questo in Italia non è accaduto e non si poteva nemmeno chiedere a Lega e Movimento Cinque Stelle di formare obbligatoriamente un governo dato che le due compagini si sono presentate in antitesi. L’accordo sarebbe stato un puro atto di liberalità e non un obbligo politico e morale. È la dura legge del proporzionale baby, quel fantomatico generatore di paludi parlamentari dal quale ci eravamo tirati fuori per la prima volta nel 1994, quel meccanismo che non decreta vincitori e che lascia agli accordi ex post in Parlamento la formazione dei governi. E invece più di qualcuno vorrebbe prendere due blocchi elettorali e politici contrapposti (Pentastar e leghisti), applicare loro la coccarda dei vincitori e obbligarli a mettersi insieme: un modo di ragionare da maggioritario applicato al proporzionale.

Anche Sergio Mattarella sembra essere caduto in questo tranello tanto che gli incarichi esplorativi di volta in volta assegnati in questi due mesi prevedevano sempre lo stesso schema: provare a capire se i pentastellati potevano fare un accordo con il centrodestra o in alternativa con il Pd. Un paradigma insomma secondo il quale i Cinque Stelle erano necessariamente centrali nella partita (come se anche Mattarella li reputasse vincitori) mentre gli altri soggetti politici ruotavano a seconda del diverso tentativo di incastro. Non si capisce se si tratti di un equivoco o se questa forzatura sia stata fatta ad arte per evitare che Matteo Salvini accampasse strane pretese da un lato e per tentare di rimettere in gioco il Partito Democratico dall’altro: se Luigi Di Maio non vuole Silvio Berlusconi in maggioranza e se Matteo Salvini non vuole mollare il centrodestra ma non vuole nel contempo dialogare con il Pd, è chiaro che l’unica alternativa in campo – stante il rifiuto del Pd di appoggiare un Governo Di Maio – è quella di un governo del Presidente della Repubblica sostenuto da Pd e Cinque Stelle. Resta solo da aspettare che Di Maio si rassegni a fare un passo indietro – comprendendo che si è fatto usare bruciandosi – e poi il gioco è fatto.

Ecco perché Matteo Salvini, intuendo che il Colle spinge per l’accoppiata M5S-Pd, prova a sparigliare le carte pretendendo un preincarico. Quest’ultimo è finalizzato a giocarsela in Parlamento e smascherare il piano preconfezionato dal Quirinale consegnando nel contempo una exit strategy al povero Luigi Di Maio il quale solo così potrebbe uscire dalla morsa che il Pd e l’ala sinistra del suo Movimento gli hanno ricamato intorno. Di Maio credeva di essere uno statista ma si è ficcato in un gioco molto più grande di lui e ora rischia di uscirne con le ossa rotte se solo non comprende che il tentativo di Salvini è una ciambella di salvataggio lanciatagli dal leader leghista un attimo prima che Davide Casaleggio lo licenzi e che il Quirinale non gli apra più il portone.


di Vito Massimano