mercoledì 1 novembre 2017
David Hume e Jean-Jacques Rousseau sono due figure fondamentali della cultura moderna. Negli anni Sessanta del diciottesimo secolo i loro destini s’incrociarono, ma l’iniziale amicizia si convertì presto in avversione, essenzialmente a causa del Ginevrino e del suo patologico egocentrismo, accompagnato dalla persuasione di essere sempre vittima di complotti e malvagità.
Grazie a Lorenzo Infantino, che ha curato la pubblicazione del resoconto fatto da Hume all’indomani del litigio (“A proposito di Rousseau”, edito da Rubbettino a 12 euro), è oggi possibile comprendere meglio questo episodio non secondario dell’età dei Lumi.
La vicenda trae origine dalle difficoltà di Rousseau, costretto a lasciare la Svizzera dopo che in precedenza era stato obbligato ad abbandonare la Francia. È a questo punto che Hume, con generosità, si fa carico dei problemi di Jean-Jacques e lo aiuta a stabilirsi in Inghilterra.
In una prima fase le relazioni sono eccellenti, ma l’idillio viene meno quando la pubblicazione di un testo assai critico verso l’autore del “Contratto sociale”, anonimo ma uscito dalla penna di Horace Walpole, induce Rousseau a ritenere che l’autore dell’attacco sia lo stesso Hume. Da qui una serie di accuse che lasciano il filosofo scozzese senza parole e generano un “caso” di cui s’interessa tutta Europa.
Dal resoconto e dalle lettere, contenute nel volume, emergono due personalità diversissime. Hume si manifesta in tutto il proprio equilibrio, il suo senso della misura, la sua prudenza. Benché egli sia stato (si pensi all’originalità della sua gnoseologia) uno dei pensatori più acuti della filosofia di tutti i tempi, in lui non venne mai meno la capacità di apprezzare quanti hanno idee diverse, insieme a una visione liberale della società: fondata sulla civiltà, sul confronto, sulla valorizzazione del commercio.
Al contrario, Rousseau appare vittima di quella patologia dell’anima che lo portò a vivere costantemente nella contraddizione: ad abbandonare i figli in un brefotrofio mentre egli si dedicava alla pedagogia, a denunciare l’immoralità del teatro nel momento stesso in cui scriveva testi di prosa e opere liriche, a esaltare retoricamente la libertà e pure a costruire le basi per l’instaurazione di regimi intolleranti e giacobini.
Quando nel suo soggiorno francese Hume si reca a Fontainebleau rimane davvero sorpreso dall’ammirazione che tutti, “dalla famiglia reale in giù”, mostrano per il suo ingegno. Al contrario, Rousseau è perennemente insoddisfatto, ritenendosi meritevole di ogni cura. Risulta insomma evidente come egli fosse davvero persuaso di avere il diritto di avere il mondo intero ai suoi piedi, dato che – questo è ciò che credeva – aveva subito ingiustizie di ogni tipo.
È allora un sentimentalismo irrazionale e malato quello che domina la personalità di Rousseau e che segna pure, a ben guardare, il progetto politico delineato dalle sue pagine sulla politica, sull’economia e sulla vita culturale. Esaltatore di Sparta e avverso alle libertà dei singoli (e al diritto di proprietà), ostile alle scienze e alle arti, desideroso di annullare l’individuo dinanzi a quella volontà generale che interpretava la comunità nel suo insieme, Rousseau fu incapace di capire la cortese sollecitudine dello Scozzese. Ma questo perché viveva entro un mondo di rappresentazioni deformate che non gli consentivano di percepire in maniera corretta quanto accadeva attorno a lui.
È però proprio a partire da tale deformazione del mondo che egli ha costruito una filosofia destinata a fondare le basi dell’ordine istituzionale entro cui ancora oggi noi in qualche modo viviamo e che sembra pure ispirare (si chiama “Rousseau”, non a caso, la piattaforma internet dei grillini) quanti si candiderebbero a portarci fuori dal pantano.
di Carlo Lottieri