venerdì 27 ottobre 2017
“Perequazione dei trattamenti pensionistici - La Corte costituzionale ha respinto le censure di incostituzionalità del decreto-legge n. 65 del 2015 in tema di perequazione delle pensioni, che ha inteso dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015. La Corte ha ritenuto che – diversamente dalle disposizioni del ‘Salva Italia’ annullate nel 2015 con tale sentenza – la nuova e temporanea disciplina prevista dal decreto-legge n. 65 del 2015 realizzi un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica”.
Questo il testo del comunicato stampa con cui la Consulta l’altro ieri ha comunicato la decisione di respingere il ricorso contro il blocco della perequazione. In attesa di leggere la sentenza e di conoscerne le motivazioni, mi limiterò ad alcune considerazioni “a caldo”. Ma prima provo a ripercorrere brevemente le principali tappe della vicenda.
Con sentenza n. 70 del 2015, la cosiddetta “Sentenza Sciarra”, la Consulta dichiara l’illegittimità del blocco della rivalutazione delle pensioni superiori la tre volte il trattamento minimo Inps (1443 euro lordi nel 2015) previsto dalla Legge Fornero del 2011. Tale blocco, infatti, comportando una perdita definitiva del potere d’acquisto dei pensionati, sacrifica in modo irragionevole il Diritto costituzionale a una prestazione adeguata, per di più nel nome di generiche esigenze finanziarie.
A seguito di quella decisione l’Inps avrebbe dovuto rimettere nelle tasche dei pensionati la rivalutazione maturata e adeguare gli assegni pensionistici futuri, con un esborso stimato di circa 17,5 miliardi di euro nel 2015 e di oltre 4,4 nel 2016 e per ogni anno successivo. Il Governo decide quindi di correre ai ripari confezionando in fretta e furia un decreto, il n. 65/2015 (Renzi-Poletti), con cui restituisce ad una parte dei pensionati una minima parte degli arretrati per il 2012-2015: poco più di 2 miliardi di euro, rispetto ai 17,5 dovuti. È dunque evidente che il Governo ha fatto finta di dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte ma in realtà ne ha aggirato il dispositivo. Ma veniamo ad oggi.
Per il momento non è possibile sapere in base a quale “acrobazia argomentativa” i giudici abbiano deciso di salvare integralmente il decreto Renzi-Poletti: nel comunicato si accenna solo a “un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica”.
Sarà. Una cosa però è certa: assieme alle legittime aspettative di oltre 5 milioni di pensionati, sotto il rullo compressore della Corte finiscono per essere schiacciati numerosi, importanti e (fino ad oggi) consolidati principi e si apre una pericolosa breccia nel sistema. La Corte infatti non solo contraddice se stessa, a distanza di appena due anni, ma assolve anche un legislatore che, in aperto contrasto con l’articolo 136 della Costituzione, si è volutamente sottratto all’attuazione di una sentenza inequivocabile, confezionando una norma che nella sostanza riproduce gli effetti di quella dichiarata incostituzionale. E, quel che è peggio, la Consulta per la prima volta riconosce la possibilità, per una legge successiva, di travolgere “diritti quesiti”, anche “fondamentali”, in nome dell’equilibrio di bilancio. Con buona pace della certezza del diritto e dell’affidamento che ogni cittadino dovrebbe poter riporre nello Stato e nelle istituzioni.
Ma in fondo, vien dare, l’esito era tutt’altro che imprevedibile. Se è vero, infatti, che nel 2015 sei membri del collegio erano a favore dei pensionati e sei contrari, e la sentenza Sciarra è stata emanata perché tra i favorevoli figurava il presidente (Criscuolo), è bene ricordare che due dei tre giudici che mancavano, nominati nel dicembre 2015, si erano espressi apertamente contro la sentenza Sciarra. Augusto Barbera infatti, è autore di un articolo dal titolo eloquente: “La sentenza relativa al blocco pensionistico: una brutta pagina per la corte”; e Giulio Prosperetti, anch’egli commentando la sentenza 70/2015, scriveva che dagli articoli 36 e 38 Cost. non si può “evincere il principio della immodificabilità del potere d’acquisto” delle pensioni. Sarà stato un caso?
(*) Professore di Diritto del lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia
di Giuseppe Pellacani