mercoledì 25 ottobre 2017
Un aforisma, un commento - “In tutto il mondo, la pretesa di sempre maggiore autonomia da parte delle regioni più ricche porta alla memoria la figura arrogante dei primi della classe, con i libretti pieni di trenta e lode ma rivelatisi poi, in molti casi, impacciati nell’affrontare la realtà e le sue sorprese. Perché la vita, come la Storia, è un’altra cosa. In California come a Treviso”.
Sull’autonomia lombarda e veneta, per ora, ci sono solo parole ma, come si dice, in politica le parole sono molto simili ai fatti perché contengono intenzioni, decisioni e programmi. Quelle usate dai solerti governatori Maroni e Zaia non sono precisamente quelle che avrebbero adottato Cavour o Minghetti, sostenitori di un ragionevole federalismo amministrativo in grado di unire l’Italia e non certo di marcare sprezzantemente le differenze regionali.
Secondo le parole di Roberto Maroni, il valore storico del referendum è pari al suo valore strategico; basti pensare, ha detto, che “anche la Brexit è iniziata con un referendum”. Per Luca Zaia, poi, l’autonomia sarà il primo passo per fare del Veneto una regione “più simile alla Germania che alla Grecia”. Due affermazioni che non fanno certo dei due leghisti dei lungimiranti uomini di Stato ma al più di Regione, nonostante il loro contenuto sia da un lato penoso e dall’altro preoccupante.
Penoso perché, dopo trent’anni di programmi roboanti e di sonore sconfitte, l’aver portato alle urne meno del 50 per cento degli aventi diritto per un referendum generico che dovrà sottostare al parere della Camera per poter amministrare scuole e qualche servizio, è ben poca cosa rispetto alle pretese originarie di natura secessionista che hanno troppo lentamente abbandonato. Strano, comunque, che i commentatori non abbiano adottato la consueta formula giornalistica per la quale, in questo caso, Lombardia e Veneto sono in tutta evidenza “spaccati a metà” dato che più della metà degli elettori non ha mostrato alcun patriottismo regionalistico.
Preoccupante perché, per due regioni italiane, additare come esempi da imitare la Gran Bretagna e la Germania è da un alto grottesco e dall’altro il segno palese di una visione infantile della politica. Una società non può che esprimere se stessa e non può, sic et simpliciter, comportarsi come se fosse un’altra. La Germania e la Gran Bretagna hanno storie assai diverse fra loro e diversissime dall’Italia. Dagli altri Paesi si possono talvolta mutuare leggi o criteri organizzativi che si ritengano adatti alla propria realtà economica o sociale, ma diventare “più simili” a un’altra società è pressoché impossibile, impraticabile, come la Storia dimostra, persino per il più duro colonialismo.
Il fatto è che, coi tempi che corrono, la Lega ha buon gioco nel riproporsi come portabandiera di una sorta di “suprematismo regionale” per il quale, con non poca esagerazione, alcune regioni del Nord non solo sottolineano il proprio oggettivo maggiore sviluppo rispetto alle regioni del Sud ma, ora, giungono al punto di dichiarare esplicitamente, ma inopinatamante, la propria vocazione mitteleuropea.
C’è da chiedersi quanti lombardi e veneti sarebbero disposti a riorganizzare la propria esistenza secondo il pragmatismo inglese o il rigorismo tedesco. Credo ben pochi, perché Milano non è Londra né Francoforte. E lo “stile esistenziale” italiano, ivi compreso il lavoro, il modo di fare impresa nonché l’atteggiamento verso lo Stato, sistema fiscale in testa, è ben diverso da quello inglese o teutonico. Nonostante Lombardia e Veneto abbiano vissuto e stiano vivendo varie forme di modernizzazione, sono e rimangono regioni pienamente italiane, nel bene e nel male. Ulteriore modernizzazione è sicuramente augurabile e a ciò sta provvedendo, per la verità non sempre con la necessaria efficienza, la politica interna europea, che, assieme purtroppo a molti errori di metodo, sta comunque producendo un crescente aggiornamento e una certa omogeneizzazione di procedure fondamentali per ogni Stato dell’Unione, inclusa l’economia, l’amministrazione, la ricerca, l’istruzione e la stessa vita quotidiana.
A questo riguardo stupisce, fra l’altro, che Zaia desideri assomigliare al presidente di un Land tedesco dopo aver sostenuto, assieme alla vociante gente della Lega, che noi saremmo servi della signora Merkel e fagocitati dall’invadenza della ricca Germania. Ora si ravvede e sogna forse una auto-Anschluss? Oppure, più modestamente, aspirerebbe, come molti suoi corregionali, abbacinati dal benessere e dall’efficienza trentina e bolzanina, a essere il presidente di una regione autonoma come le province del Trentino-Alto Adige? Questa seconda alternativa ci porta dritti al cuore della questione: l’autonomia come strategia per incrementare ulteriormente il benessere della popolazione locale con somma indifferenza per le regioni meno sviluppate, accusate in blocco di essere irresponsabili nella conduzione della cosa pubblica e, va da sé, per l’idea stessa di un’Italia unita e solidale. Si tratta di una tendenza crescente nel mondo occidentale poiché al caso della Catalogna, regione la più ricca della Spagna, fa il paio persino il caso della California, lo stato più ricco degli Usa, dove il leader del movimento Yes California, Tim Vollmer, al motto di “La California è una nazione, non uno stato” denuncia come ingiustizia il fatto di dover “sovvenzionare altri stati americani in perdita”.
Tuttavia, il sogno di tenere a casa propria il reddito che si produce è, purtroppo, appunto solo un sogno, realizzabile solo in casi eccezionali e marginali come sono la Valle d’Aosta o il Trentino-Alto Adige nate da accordi o persino trattati internazionali del tutto irripetibili altrove. Di fatto, le altre regioni italiane a Statuto speciale non brillano affatto per benessere accresciuto o efficienza nei servizi. Trattenere quote elevate del proprio reddito significa prendersi carico di competenze prima riservate allo Stato centrale. Per farlo, lo Stato può, almeno teoricamente, realizzare economie di scala mentre le regioni autonome devono fare i conti con nuovo personale da assumere, nuove installazioni, nuovi strumenti, nuovi servizi e così via. Se dieci regioni, divenendo autonome, devono amministrare le proprie scuole, state pur certi che il totale del personale che verrà assunto supererà quello che attualmente si occupa della stessa materia presso il ministero dell’Istruzione.
Quanto al fatto che lo faranno meglio di quest’ultimo è, ovviamente, tutto da verificare ma le differenze non saranno di sicuro vistose. Anche perché, al fine di non tradire le aspettative della popolazione locale che si attende ingenuamente la diminuzione dell’imposizione fiscale, le Regioni non potranno aumentare di molto il prelievo – già oggi in essere attraverso le irritanti “addizionali” – e i servizi complessivi non miglioreranno di certo. Ad aumentare saranno solo le prospettive della burocrazia e del controllo sociale, e politico, sul territorio, delle spese improduttive e del clientelismo, come acutamente previsto nel 1970 da Giovanni Malagodi e come ha dettagliatamente chiarito in questi giorni su queste colonne Pietro Di Muccio de Quattro.
Ma forse è proprio questo che interessa non tanto la gente entusiasta e orgogliosa dell’autonomia prossima ventura quanto i politici locali: più denaro da spendere in mille rivoli, più posti pubblici da stabilire e amministrare, insomma più potere e più voti. In perfetto “stile italiano”. L’inefficienza del nostro Stato, la sua esosità fiscale nonché lo sviluppo necessario delle regioni più deboli ma inefficienti, sulle quali lo Stato dovrebbe esercitare un costante e severo controllo anche sanzionatorio, sono ragioni validissime, semmai, per seguire attentamente la politica e premiare, col voto, i partiti e gli uomini che sembrano dare più affidamento per un’ulteriore stagione di riforme generali. Valide su tutto il territorio nazionale e senza pensare a ricostruire confini illusori quanto rischiosi per tutti.
di Massimo Negrotti