venerdì 4 agosto 2017
Raramente a un capo della sinistra - e Matteo Renzi lo è, più o meno di sinistra - capitava, a un tempo, la sfortuna di perdere le elezioni amministrative di due città simbolo come Roma e Torino e, un anno dopo circa, la fortuna di assistere, con goduria, al fallimento disastroso dei vincitori, soprattutto nella Capitale. E ha ragione il nostro direttore quando, commentando il flop di Virginia Raggi, ricorda come quel successo alle elezioni non fosse dovuto alle sue capacità, peraltro ignote anche ai suoi, quanto alla disperazione dei cittadini che, come si dice, “non ne potevano più della vecchia politica”. E che non ne possano più della nuova, nuovissima, diversa, pura come un giglio, ma assolutamente incapace di governare, è un fatto abbastanza pacifico, solo che lo stesso Renzi non sembra essersene compiutamente giovato. Almeno fino a oggi, ma temiamo anche per dopo. Anche e soprattutto perché gravano sul suo nuovo corso, peraltro avviato dallo stesso con più di qualche scombussolamento interno, compresa una scissione, e sia pure in un quadro di rinnovamento in ispecie nel linguaggio (che comunque conta), un antico retaggio, una sorta di palude che lo lasciano, come dire, a metà del guado.
Per esempio, l’ultima rincorsa populista del renziano Matteo Richetti nella farsa dei vitalizi la dice lunga sul cattivo genio dentro il Partito Democratico di temere i leggendari scavalcamenti a sinistra di un Grillo che, basterebbe uno sguardo liberal-riformista per chiamarli col loro esatto nome: giustizialisti, demagogici, reazionari, fascistoidi. Pesano ancora sul Pd le colpevolmente e sdegnosamente rifiutate lezioni del socialismo italiano ed europeo; gravano tuttora sui suoi comportamenti di fondo il mancato, definitivo approdo alla fonte riformista e liberale (la socialdemocrazia tout court), l’unica non solo in grado di dare una risposta autenticamente di governo alle nuovissime realtà, ma anche la sola che possa garantire un quadro istituzionalmente solido in una visione di democrazia dell’alternanza, anche e soprattutto rispetto a quanti vorrebbero aprire il Parlamento, sede appunto delle istituzioni, come una scatola di tonno sventolando cupe bandiere in nome di un moralismo d’accatto e di un giacobinismo da quattro soldi.
Non sembri così stravagante temporalmente rievocare, insieme alla sacralità marxista divenuta peraltro lettera morta, quell’insegnamento di un Gramsci, ritenuto una sorta di ideale immagine votiva per una consistente porzione della sinistra, e dunque nello stesso Pd, che propugnava nei “Quaderni dal carcere” la rivoluzione comunista intesa come “totale riforma intellettuale e morale”, l’unica in grado di assicurare la certezza della verità in uno Stato etico ed educatore, espressione di una identità morale e politica per la quale il ruolo del partito è, a un tempo, totalitario e totalmente morale.
Intendiamoci: Renzi, che non proviene dai sacri lombi comunisti-gramsciani ma, semmai, democristiani, ce l’ha messa tutta per rottamare persone, cose, storie e vecchiumi ideologici che servono meno del due di picche, ma non ne ha tratto, almeno finora, le conseguenze più necessarie e decisive per lo sviluppo del Paese. Costava e costa fatica conquistare una elaborazione convincente su cosa sia essere, qui e ora, liberali, democratici, riformisti, senza complessi di inferiorità ideologica, senza fare l’occhiolino, sia pure furbescamente, a chi cavalca l’onda populista, senza, soprattutto, ammantarsi di moralismi un tanto al chilo, scambiati per lezione di morale. Da ciò un senso di incompiutezza sullo sfondo di un costante rinvio delle scelte autenticamente strategiche a favore, spesso e volentieri, di un tatticismo i cui limiti più vistosi li scorgiamo in quella specie di gioco dei quattro cantoni, Renzi-Pisapia-Orlando-Bersani, che, lungi dal coniugare i tratti di una cultura liberal-democratica, si risolve in un parlare a se stessi, in un linguaggio riservato agli interna corporis, che non interessa nessuno. E con la palude in agguato.
di Paolo Pillitteri