martedì 4 luglio 2017
Ricordate Woodstock? Il festival della musica dei gloriosi anni Sessanta da cui iniziò la rivolta studentesca? Qui da noi, invece, c’è la rivoluzione giudiziaria di Woodcock, il Torquemada pubblico ministero di Napoli, autore e protagonista di inchieste di grido a danno di noti Vip, e molto spesso finite nel nulla giudiziario delle archiviazioni o nelle sentenze assolutorie dei tribunali italiani, a beneficio dei suoi indagati eccellenti. Mi sono sempre chiesto, nel suo caso (viste le mastodontiche spese sostenute dallo Stato per le così dette intercettazioni a strascico, contraddistinte da parecchie migliaia di ascolti casuali), perché non esista per i pm una sorta di danno erariale per “inchiesta temeraria”, sulla falsariga di quanto accade per le liti dello stesso tenore tra privati.
Lo dico subito, a scanso equivoci: la colpa dell’attuale marasma, cioè del pm giudice-poliziotto e della mancata separazione delle carriere nella nuova configurazione “all’americana” del Codice di Procedura penale, è interamente colpa di una certa politica imbelle, complottarda e populista. Una volta, esisteva un’Arma che aveva nei suoi sottoufficiali il nerbo, la colonna portante di autonome indagini sul territorio, fatte di pedinamenti, di gestioni di piccole fonti malavitose, di ascolto capillare dei quartieri urbani più problematici, per poi portare ai procuratori una serie di rapporti confidenziali in merito a quanto accertato, e sui quali poter avviare indagini di più largo respiro.
Esistevano, poi, misure meno appariscenti di prevenzione (come il fermo di polizia per 48/72 ore applicabile a varie fattispecie di rischio) che funzionavano come potente deterrente rispetto alla commissione di reati minori. Oggi, tutto ciò è svanito nel nulla e non “si muove foglia che procurator non voglia”. Assolutamente ridicolo e inefficiente, quando intere regioni italiane sono nella morsa capillare delle grandi e piccole organizzazioni criminali. Se tanti, troppi immigrati clandestini possono impunemente operare e prosperare senza possibilità di controllo nei grandi e medi spazi urbani, tutto ciò è anche colpa della nuova organizzazione del sistema della giustizia e dei poteri fortemente attenuati della polizia giudiziaria. Ma veniamo alla questione più delicata che il “Sistema Woodcock” impone oggi all’attenzione dell’opinione pubblica italiana. Ovvero, il potente cortocircuito tra fuga di notizie riservate dagli uffici delle Procure e il ruolo della carta stampata e dei media in generale per la loro, più o meno legittima, diffusione. In tutto questo, però, il grande malato è come sempre la politica che non vuole, non può e non sa regolamentare in modo decente la questione della pubblicazione delle conversazioni intercettate.
E malgrado l’assoluta irrilevanza, nella stragrande maggioranza dei casi, di tali rivelazioni scandalistiche, che inondano stabilmente per mesi le pagine principali dei grandi quotidiani, i loro autori redazionali si dimostrano nondimeno sistematicamente incapaci di valorizzare, dal punto di vista dell’efficacia, l’interesse a conoscere pubblicamente i fatti denunciati e perseguiti attraverso l’inchiesta giudiziaria, il cui clamore hanno pur cavalcato e contribuito sostanzialmente a produrre. Nel loro caso, infatti si tratta di produrre un’infinità di pettegolezzi, una miriade di commenti che non lasciano traccia e non imprimono alle indagini nemmeno il più piccolo passo in avanti, visto che il giornalismo vero, quello di inchiesta, è bello che sepolto. Troppi addetti ai lavori sono sempre alla ricerca dell’elemosina del disvelamento di segreti di Pulcinella, da parte del procuratore munifico di turno, o si addensano come api sul miele nell’arnia degli archivi giudiziari, con la ricerca rapace, spasmodica dei fascicoli di conclusione dell’inchiesta, o di rinvio a giudizio dove sono contenuti i giacimenti cartacei della trascrizione delle intercettazioni che riguardano le conversazioni degli imputati. Quanti casi esistono dove è vero il viceversa? Ovvero, l’apertura di procedimenti giudiziari a seguito di scoop del giornalismo professionale d’inchiesta, che si carica di grandi rischi per giungere al suo risultato finale?
Pignatone e Ielo sono messi oggi con le spalle al muro, costretti a indagare di malavoglia su di un loro collega forse troppo intraprendente che, va detto, aveva dato in passato chiari segni di eccessivo protagonismo, senza che mai il Csm si fosse degnato di esprimersi sul suo operato, malgrado le innumerevoli denunce fatte da chi, da quel procuratore, si è sentito ingiustamente perseguitato e, per ciò, mandato assolto dal giudice di merito.
Marco Travaglio-Dettaglio (copyright Giuliano Ferrara) si è difeso energicamente, scaricando la palla sulle fonti segrete del suo giornalista d’inchiesta, Marco Lillo. Certo, giustissimo che i colleghi decidano a loro rischio e pericolo di tutelare in ogni modo le fonti di cui dispongono. Meno, ma molto meno giusto, però, è incaponirsi a difendere l’indifendibile, a minimizzare, come fa Il Fatto, a proposito delle inquietanti menzogne e depistaggi messi in atto dai responsabili del Noe, la squadra di polizia giudiziaria di fiducia del pm di Napoli. Perché così, francamente, si sfiora la complicità e non si fa un buon servizio alla chiarezza di fatti già acclarati senza ombra di dubbio, dato che “carta canta e villan dorme”.
di Maurizio Bonanni