giovedì 8 giugno 2017
Visto che la sentenza/richiesta della Corte di Cassazione sul caso Totò Riina, nasce dalla necessità di valutare il riconoscimento dell’articolo 27 della Costituzione, seppure con il massimo rispetto viene da chiedersi: “Quando mai?”.
Sia chiaro, il nostro vuole essere esclusivamente un contributo di riflessione intorno alle innumerevoli e ovvie reazioni emotive che la sentenza ha suscitato. Bene, la domanda che ci poniamo e vi poniamo è proprio questa: “Quando mai ci si è accorti della quantità di volte che quotidianamente vengono disattesi, trascurati, sottovalutati i dettati costituzionali a favore di tutti i cittadini?”.
Se volessimo fare le pulci in punta di diritto al mancato riconoscimento di una serie di principi che la Carta fondamentale impone, ci vorrebbe un papiro. Tanto è vero che proprio per questo, nonostante la nobiltà riconosciuta alla fonte prevalente, tutti ne chiedono una profonda revisione. Da decenni, infatti, si parla di riforme, Assemblea costituente, riscrittura della Costituzione, anche perché ci si è resi conto che nei fatti il Paese funziona ormai con una sorta di Costituzione parallela, che non è quella scritta. Come se non bastasse, non si contano gli episodi ove poveri cristi, cittadini comuni e non criminali incalliti e spietati, si vedono abusati ed espropriati di diritti sacrosanti. Succede in ogni campo, fisco, lavoro, casa, salute, materia civile e penale. Insomma, se non su tutto, quasi.
Eppure nonostante ciò, tranne che alcune volte, le evidenze di questo nei tribunali o passano inosservate, oppure si fa in modo di renderle tali. Del resto basterebbe guardare ai tanti richiami dell’Europa in materia di giustizia disattesa, negata, trascurata nei riguardi soprattutto dei più deboli e indifesi. Ecco perché la pronuncia della Cassazione su Totò Riina fa venire la pelle d’oca, pur richiamando un articolo costituzionale.
Sia chiaro, i cosiddetti diritti inviolabili sono e devono essere tali per chiunque, ci mancherebbe, altrimenti torneremmo al Medioevo, ma in certi casi la giustizia ha l’obbligo e il dovere perentorio di essere non chiara, ma di più. E allora ci chiediamo cosa intenda la Cassazione per morte dignitosa, perché i giudici devono spiegarci sino all’infinito il significato che gli danno. È ovvio, infatti, che se per morte dignitosa di una persona malata in carcere si intenda che gli si debba dare la massima assistenza, cura, attenzione, in un luogo adatto e idoneo alle necessità, ci siamo, altrimenti non ci siamo. Perché va da sé che ove i giudici ritenessero che la morte dignitosa fosse possibile solo e esclusivamente “a casa propria”, ci troveremmo di fronte a uno strappo più unico che raro.
Dietro ogni pena inflitta c’è qualcosa di ancora più importante, la certezza; senza la certezza si sa finisce il senso stesso della pena e questo è un problema che in Italia purtroppo è spesso all’ordine del giorno. Quando poi la pena è l’ergastolo, anzi tante e tante volte l’ergastolo, non ne parliamo proprio, significa che dietro c’è una quantità tale di crimini e efferatezze disumane da rabbrividire. Certo, è poi vero che nella nostra Costituzione è previsto nelle mani del capo dello Stato l’istituto della Grazia, ma insomma signori restiamo sulla terra. Riina può e deve essere certamente curato e assistito al meglio del possibile fino alla fine della sua vita, così come si sta facendo nel centro medico del carcere di Parma che è attrezzato per questo, punto e basta. Ogni deviazione da questa linea, non solo sarebbe incomprensibile, ma rappresenterebbe una lesione immensa al diritto più profondo, quello del dolore di chi ha subito.
di E. Rossi e A. Mosca