Giovanni Falcone: la mafia e la retorica

venerdì 21 aprile 2017


Li celebreranno, tra qualche settimana, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, uccisi un sabato sciroccoso di venticinque anni fa, da una spaventosa esplosione che devastò il tratto di superstrada che collega Palermo all’aeroporto, all’altezza di Capaci. Giorni indimenticabili per tanti di noi giornalisti, in fretta e furia catapultati sul luogo della strage; e già si era “calati” a Palermo e in Sicilia: ad Agrigento la mafia ha già ucciso Giuliano Guazzelli, detto il “mastino”; e poi l’esecuzione del discusso parlamentare democristiano Salvo Lima; e altre volte toccherà andare: per la strage di via D’Amelio, dove è il fraterno amico di Falcone, Paolo Borsellino, ad essere ammazzato; e poi l’intoccabile Ignazio Salvo... Un altro poliziotto di valore, Rino Germanà, si salva miracolosamente a settembre, dai colpi di kalashnikov esplosi da Leoluca Bagarella. Un’interminabile stagione di sangue e di piombo, quella del 1992.

Con l’approssimarsi dell’anniversario della strage di Capaci sarà un coro di voci che celebreranno Falcone: magistrato, come s’usa dire in queste occasioni, “bravo”, “sagace”, “unico”. È vero: Falcone era tutto questo, siciliano di quella Sicilia dolente e consapevole che conosce il sugo del sale, a cui tutti devono gratitudine; ha onorato il nostro Paese nel mondo, e il mondo ci ha invidiato. Si leggeranno e si ascolteranno tante cose di e su Falcone. Molto si preferirà tacerlo, dimenticare, omettere. Non per caso.

Un passo indietro: 21 giugno 1989. Sugli scogli davanti a una villa sull’Addaura, affittata per trascorrere qualche giorno di vacanza in pace, si scopre una borsa imbottita di candelotti di tritolo. Falcone è assieme a due colleghi svizzeri; l’attentato è fissato per il giorno prima, ma Falcone improvvisamente cambia programma. Lo sanno pochissime persone. Un attentato, disse Falcone, concepito da menti raffinatissime. Ma c’è chi giunge a insinuare che l’attentato lo ha organizzato lo stesso Falcone, per farsi pubblicità. Tommaso Buscetta, quando decide di “pentirsi” e raccontare le sue verità, a Falcone dice: “Dottore, l’avverto: cercheranno di distruggerla, fisicamente e professionalmente. Il conto che apre con Cosa Nostra non si chiuderà mai”.

Cosa Nostra, paziente, aspetta. Aspetta e uccide: fa il vuoto attorno a Falcone. Cade Beppe Montana, capo della sezione latitanti; cade Ninni Cassarà vice-dirigente della Squadra mobile. Per paura di nuovi attentati, Falcone, Borsellino e le loro famiglie vengono trasferiti all’Asinara; lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole, concludono l’istruttoria del maxiprocesso. Alla fine lo Stato presenta il conto: 415mila lire circa a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno.

Il maxiprocesso si conclude con 360 condanne. Quando il capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, Antonino Caponnetto, considera finita la sua missione e va in pensione, sembra naturale che al suo posto sia nominato Falcone. La maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura fa valere il criterio dell’anzianità e non della competenza, e nomina Antonino Meli, magistrato con scarsissima esperienza di mafia. A favore di Meli e contro Falcone, votano anche due dei tre componenti del Csm eletti nelle liste di “Magistratura Democratica”. Uno dei due, Elena Paciotti, poi viene candidata ed eletta dal Partito Comunista Italiano al Parlamento europeo. Meli, appena insediato, smantella il pool, teorizza che tutti si devono fare di tutto. Falcone si deve occupare di indagini su scippi, borseggi, assegni a vuoto. Borsellino, l’amico fraterno, si ribella, rilascia interviste con accuse di fuoco. Finisce a sua volta sul banco degli accusati, costretto a doversi difendere al Csm.

Falcone è sempre più solo. Si candida ad alto commissario per la lotta antimafia; lo bocciano. Si candida al Csm, i suoi stessi colleghi non lo votano. È la stagione delle lettere anonime del “corvo”: è accusato di gestione discutibile e disinvolta del “pentito” Salvatore Contorno. Il culmine si raggiunge quando Leoluca Orlando e altri leader de “La Rete”, lo accusano di tenere nei cassetti la verità sui delitti eccellenti. È costretto a un’umiliante difesa al Csm. Alla fine accetta la proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli, di dirigere gli Affari penali a Roma. Lo accusano di diserzione. Sono in pochi a difenderlo: Martelli e i socialisti; Marco Pannella e i Radicali...

Infine la Procura nazionale antimafia: nasce da un’idea dello stesso Falcone, un organismo con il compito di coordinare le inchieste contro Cosa Nostra. Lui è il naturale candidato, il Csm lo boccia ancora una volta. Gli viene preferito Agostino Cordova, procuratore capo di Palmi, uno di quei magistrati che aveva firmato un documento, assieme ad altri decine di colleghi, in cui si individua la Procura Antimafia come un pericolo per l’operato e l’indipendenza dei magistrati. Alessandro Pizzorusso, componente “laico” del Csm designato dall’allora Pci, firma sul “l’Unità” un articolo che grida vendetta: in pratica si dice che Falcone non è affidabile, sarebbe “governativo”, avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza.

Quando il 23 maggio Giovanni Falcone viene ucciso, Paolo Borsellino capisce che anche per lui il tempo è scaduto. Il 13 luglio rivela: “So che è arrivato il tritolo per me”. A due colleghi magistrati confida, in lacrime: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”. Il 19 luglio, due minuti prima delle ore 17 un’autobomba lo uccide a via D’Amelio assieme ai cinque uomini della scorta. Andava a trovare la madre.

Diceva Falcone: “Abbiamo poco tempo per sfruttare le conoscenze acquisite; poco tempo per riprendere il lavoro di gruppo, poco tempo per riaffermare la nostra professionalità. Dopodiché tutto verrà dimenticato. Di nuovo scenderà la nebbia. Perché le informazioni invecchiano e i metodi devono essere continuamente aggiornati”. Palermo è davvero la città irredimibile di cui parlano Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino? C’è una frase di Falcone che invita ciascuno a fare il proprio dovere, la prima resistenza contro il potere e la violenza mafiosa.

Leonardo Sciascia con largo anticipo comprende come stanno le cose, e indica una strada. Eppure per qualcuno lo scrittore coltiva l’idea che la mafia non sia “quell’organizzazione pericolosa che Falcone aveva scoperto”. Davvero? Proprio Falcone non era d’accordo: intervistato da Mario Pirani per “la Repubblica” nell’ottobre del 1991, il magistrato dice di aver sempre considerato Sciascia un grande siciliano, profondamente onesto. In altre occasioni sostiene di essersi formato anche attraverso i suoi libri. Quel Falcone che una volta morto tutti celebrano, e che quand’era vivo veniva accusato di aver “disertato”, di aver lasciato il palazzo di Giustizia di Palermo per un “comodo” posto di direttore agli Affari Penali a Roma, di essersi venduto ai socialisti.

Istruttiva la lettura di un brano del libro “I disarmati. Falcone, Cassarà e gli altri” di Luca Rossi. Riporta una cruda “riflessione” ad alta voce di Giovanni Falcone: “... il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un’epopea, non siamo superuomini; e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera; poi se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio. Se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello lì che è passato al Pci, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa”.

Ma tutto questo difficilmente verrà ricordato e raccontato.


di Valter Vecellio