sabato 1 aprile 2017
Tira una brutta aria da 1992; si respira un giacobinismo ipocrita che spalma di moralismo peloso ogni cosa spargendo veleno anche su avvenimenti insignificanti come se tutto tornasse utile per fare della sciocca dietrologia del malaffare. Siamo tornati ai tempi di “Mani Pulite” solo che adesso non c’è più Antonio Di Pietro e la gioiosa macchina da guerra (al secolo Partito Democratico della Sinistra) ad incarnare il giustizialismo sanguinario proveniente dalla parte più buia di quella massa informe chiamata popolo. Oggi ci sono nuovi interpreti giudiziari - come ad esempio Henry John Woodcock - ma soprattutto nuovi interpreti politici che, come il Movimento 5 Stelle, cavalcano la rabbia popolana dell’uomo qualunque, il quale ciclicamente si sveglia e fa finta di apprendere con indignazione che c’è corruzione, che in Italia le cose non vanno e che c’è un blocco di potere impermeabile alle istanze degli amministrati. La qual cosa è sicuramente vera ma non va certamente vissuta come un fulmine a ciel sereno (lo sanno anche i sassi) e soprattutto non va strumentalizzata facendo demagogia alla Robespierre, il quale considerava antirivoluzionario tutto, spingendosi finanche a dare giudizi di tipo morale sui vizi o sulle debolezze dei governanti reputandoli contrari alla felicità pubblica.
È il caso della polemica sul ministro Giuliano Poletti, tanto stucchevole quanto difficile da sopirsi. Non ci saremmo mai immaginati di poter un giorno prendere le difese del personaggio in questione vista la distanza siderale che ci distingue per convinzioni politiche e, oseremmo dire, filosofiche. Si dà il caso però che la disputa sulle recenti esternazioni del ministro sia di una cretineria tale da non lasciarci indifferenti perché sottende una meschinità di pensiero ed una voglia di gettare benzina sul fuoco, da parte di chi alimenta l’ondata di moralismo integralista, con il solo fine di ingraziarsi quella moltitudine che al grido di “onestà, onestà” “chiagne e fotte” (o, a volte, chiagne e basta).
Il ministro del Lavoro, incontrando gli studenti dell’Istituto Manfredi Tanari di Bologna, ha detto una roba di una chiarezza inaudita: “Il rapporto di lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. È per questo che lo si trova di più giocando a calcetto, che mandando in giro dei curriculum”. E quale sarebbe lo scandalo? Mettersi in luce, farsi conoscere e farsi apprezzare per la propria personalità prescindendo da un pezzo di carta che dice poco di te come un curriculum? Non è una cosa immorale la relazionalità ma è semplicemente una leva che ha sempre funzionato e fatto la storia di ogni team di successo.
Tutte le grandi imprese vincenti si fondano sull’intuitu personae e su una rete di relazioni magari nate tra i banchi di scuola (piuttosto che su un campo di calcetto). O pensate che Bill Gates abbia fatto un concorso pubblico quando decise di fondare Microsoft? No, chiamò il suo vecchio amico Paul Allen. Così come Steve Jobs iniziò con i suoi amici Steve Wozniak e Ronald Wayne (conosciuto in Atari); Silvio Berlusconi chiamò il suo amico Fedele Confalonieri e Flavio Briatore conobbe il successo grazie alla sua amicizia con Luciano Benetton, e tanti altri nella storia si sono fatti largo usando una sana dose di capacità comunicazionali. E cosa c’è di male? Dov’è lo scandalo se un ministro consiglia ai giovani di non rimanere nel chiuso della propria stanzetta davanti ad un computer sperando che qualcuno noti il proprio curriculum? Cosa c’è di sbagliato nel dire che, a valle della formazione, non ci deve essere la speranza di essere chiamati a domicilio per un colloquio ma l’intraprendenza di aprirsi alla società e farsi conoscere?
Chiaro che se si vuol soffiare sull’invidia sociale - ed i 5 Stelle sono tra i più bravi - basta dire che le parole di Poletti sono “un calcio in faccia ai molti giovani disoccupati”, paventando dietro le dichiarazioni del ministro una sorta di elogio del clientelismo mirante ad esaltare come modello positivo quello basato sulla furbizia e sull’elusione delle graduatorie attraverso scorciatoie ai danni dei giovani virtuosi e studiosi. Peccato che se da un lato questa immagine stuzzica molto i nuovi indignados dediti all’odio sociale ed al rancore verso chi ce l’ha fatta perché oltre ad aver studiato ha anche osato, dall’altro va sottolineato che le graduatorie ed i concorsi sono ormai superati dal tempo (sono roba vecchia che resiste per forza di cose solo nella Pubblica amministrazione) ed hanno lasciato spazio a forme più snelle di selezione.
Il tutto come a voler dire: avrà pure il diritto un imprenditore di assumere nella propria azienda uno sveglio conosciuto a calcetto piuttosto che fare lo screening di un pacco di curriculum per poi scoprire che quello studioso su carta magari è un moscio o non ha intelligenza sociale? O vogliamo identificare la meritocrazia soltanto con i buoni voti? Quanti ragazzi della porta accanto vediamo quotidianamente incattivirsi perché, dopo tanto studio e tanti sacrifici, nessuno li chiama per un lavoro? Il lavoro, generalmente, non ti chiama a casa. Il lavoro si cerca e si ottiene con tenacia dimostrando oltre alla necessaria competenza anche una certa capacità di stare al mondo con dinamismo e scaltrezza. Si badi bene, scaltrezza e non elusione delle regole.
Poletti, consapevolmente o inconsapevolmente, ha suonato la sveglia ai ragazzi, ha chiesto loro di uscire dalla spirale di mestizia, sfiga e recriminazioni incitandoli ad affrontare la vita con grinta e proattività. Ma purtroppo i paladini dell’onestà, i sacerdoti dei diritti che diventano pretese, i maniaci della società civile che vedono corrotti ovunque questo non lo capiscono o forse ci marciano. Bisognerebbe ricordare a costoro che per ogni corrotto c’è un corruttore e che i divani delle sale d’aspetto dei corrotti sono consumati dalle terga di milioni di italiani che si recano a chiedere il favorino. Saranno, in tutto o in parte, gli stessi che poi gridano “onestà” nelle piazze e che ciclicamente si indignano pretendendo che i politici abbiano le mani pulite?
di Vito Massimano