sabato 1 aprile 2017
Abbiamo appena celebrato l’assemblea romana del Partito Liberale Italiano, in preparazione del Congresso nazionale. Una riunione interessante e molto partecipata, tenuto conto dei tempi che segnano una forte disaffezione dei cittadini verso la politica in generale e della difficoltà di raggiungere la pubblica opinione senza reali mezzi di comunicazione, soprattutto se si rinuncia programmaticamente alla propaganda urlata, alla militanza violenta e al manicheismo fanatizzato.
Ho partecipato al dibattito non solo intervenendo nell’assemblea, ma anche scrivendo per L’Opinione - con cui collaboro fin dai tempi in cui il giornale, liberale da sempre, era ancora settimanale (primi anni Novanta) - un articolo in cui esprimevo delle tesi sulla evoluzione delle formazioni liberali che dovrebbe portare al superamento delle storiche divisioni tra le formazioni di derivazione anglosassone (conservative) e quelle europee continentali (liberal-democratiche). Perché il primo compito dei liberali, io credo, è di capire la natura dei nuovi problemi e la possibile loro soluzione, per salvaguardare una Libertà che non solo è sempre a rischio e va riguadagnata e conservata a ogni generazione, ma non sempre è intesa allo stesso modo da quelle che furono la “sinistra” e la “destra” liberali.
Non pensavo proprio di intervenire in polemiche locali e tuttavia la lettera di Andrea Bernaudo sulla dinamica congressuale del Pli mi spinge a farlo. La lettera, di tono aspro ma civile, contiene però forti critiche alla gestione del Pli e segnatamente alla figura del suo presidente, Stefano De Luca. Fin qui siamo nelle quasi inevitabili e poco interessanti polemiche che accompagnano la vita dei partiti in cui si svolgono reali competizioni interne (e che peraltro non risparmiano neanche quelli ostentatamente autoritari, come le cronache di questi giorni ci indicano). Dove però penso e credo di poter rispondere è sulla azione di Stefano De Luca sul lungo periodo, perché viene indicato come uno dei responsabili della crisi storica del Pli. Sono stato testimone del contrario.
Iscritto alla Gioventù Liberale dal 1962, ero uno dei giovani dirigenti di quel partito negli anni di Giovanni Malagodi e non conoscevo personalmente De Luca, che non era ancora un parlamentare nazionale, poi negli anni Settanta mi allontanai dal Pli, sia perché non condividevo la nuova collocazione che Zanone stava dando al partito (ero e resto un liberale di destra) sia perché in ogni caso il mio lavoro di fisico mi portò per più di un ventennio a lavorare e a vivere all’estero. Nei primi anni Novanta, rientrato in Italia, mi riaffacciai a un congresso liberale, giusto in tempo per assistere alla discussione della mozione, presentata dalla segreteria e dal gruppo dirigente di allora, che proponeva lo scioglimento del partito e alla contromozione, presentata in fretta e furia, da un giovane sottosegretario che si opponeva strenuamente allo scioglimento e che per poco non salvò il partito: Stefano De Luca.
Il partito però fu sciolto e ognuno dovette trovarsi un’altra strada e io, nella riunione nazionale di noi referendari di Segni, subito dopo la vittoria dissi che il referendum aveva segnato uno spartiacque che avrebbe determinato la nascita di due blocchi, di centrodestra e di centrosinistra e che il compito nostro, a seconda delle nostre naturali inclinazioni politiche, era di occidentalizzare la sinistra o di costituzionalizzare la destra. Per me non erano possibili dubbi e mi ritrovai tra i fondatori di Alleanza nazionale, esperienza che rivendico con un certo orgoglio e che, anche se fallita, ha lasciato comunque il risultato di una destra finalmente entrata nel sistema democratico.
Erano in tanti però a non ritrovarsi completamente nei nuovi partiti del Polo, Biondi, Costa, Savelli, Savarese e tanti altri, tra cui anch’io, mordevano un po’ il freno, abituati ai dibattiti, magari inconcludenti e litigiosi, ma frequesti e aperti di casa liberale, ma tutto sommato era più una fronda che altro. De Luca no, ruppe abbastanza traumaticamente e tentò reiteratamente di rifondare il partito liberale, fino a riuscirci e a coinvolgere pian piano almeno alcuni dei suoi esponenti storici, disposti a rinunciare ai più grandi e confortevoli contenitori. Non c’è dubbio che sia stato e sia un partito dal nome glorioso ma piccolo, tanto da poter anche essere visto (a torto perché orgoglioso) come facilmente scalabile, ma comunque esistente e soprattutto deciso a mantenere in vita (o almeno a provarci) una tradizione che non è seconda a nessuna.
Da quasi vent’anni, prima come segretario e poi, passate le redini a Morandi, come presidente, De Luca è stato l’infaticabile motorino che ha cercato di mantenere in vita un’idea e una tradizione, forse solo un miraggio, ma ci ha provato. I liberali sono molti di più, per fortuna del Paese, di quelli del Pli, dai Martino ai Marzano, dai Diaconale (che ha difeso L’Opinione da venti e maree) ai Capezzone, dai Savelli ai Savarese e con tutti bisognerà provare a lavorare per costruire un’alternativa di centrodestra aperta a tutti i liberali e anche a tutti quelli che siano almeno liberal-compatibili, ma coloro che cercano di provare a continuare a essere “liberali storici” hanno comunque il diritto a mantenere aperta la loro tribuna.
Poteva il Pli essere più forte con De Luca meno presente? Forse, è possibile, quello che però è invece certo è che senza di lui non sarebbe proprio esistito. Tutto questo Bernaudo non l’ha visto, perché, come dice lui stesso, solo da pochi mesi si era iscritto al Pli e non lo ha vissuto. E allora Bernaudo ha il pieno diritto di presentare la sua visione critica, il suo “cahier de doléances”, ma io ho quello di ricordare, ringraziare e di presentare il mio “cahier de gratitude”.
di Giuseppe Basini