mercoledì 1 marzo 2017
Oltre 20mila firme raccolte perché gli amministratori del fondo delle pensioni degli avvocati si decurtino emolumenti e gettoni. Che nel bilancio della Cassa forense pesano per quasi tre milioni di euro. La clamorosa protesta parte da Catania e Napoli, ma si sta propagando rapidamente in tutta Italia. D’altronde che le casse previdenziali delle categorie dei professionisti non se la passino più tanto bene, con questi chiari di luna, è cosa che i giornalisti sanno benissimo, visto che la telenovela sul caso Inpgi è tuttora in corso ed è stata all’ordine del giorno l’anno scorso quando ci furono le elezioni per il rinnovo quadriennale degli organi dirigenti. E se il presidente della Cassa forense Nunzio Luciano può contare su un compenso annuo lordo di 72mila euro, cui si aggiungono i gettoni per le riunioni del Cda (a botte di 413 euro l’uno), l’attuale presidentessa dell’Inpgi, Marina Macelloni, si è “accontentata” di soli 235mila euro annui, contro i 315mila del suo predecessore Andrea Camporese, tuttora sotto processo per truffa allo stesso istituto che presiedeva. Anche se, va detto, le possibilità che venga assolto sono altissime.
Il problema con gli avvocati sta però nel fatto che, al contrario dei giornalisti, a fronte di erogazioni minime da circa 900 euro a trimestre per tutti (cui si aggiunge il 2 per cento su ogni parcella più un conguaglio di fine anno calcolato sul volume degli affari), per la maggior parte di loro le pensioni non supereranno gli 800 euro al mese. Inoltre si va in pensione a settant’anni suonati. E bisogna anche avere un volume di affari medio. Sennò scatta direttamente la pensione sociale.
Per questo motivo, anche gli emolumenti per i consiglieri sembrano roba da fantascienza: oggi un volume di affari, anche se un tempo modesti, da 72mila euro lordi l’anno non sono garantiti più per nessuno. Dalle tabelle della Cassa forense, per la verità, i compensi per l’organico dell’attuale Cda non sembrano esagerati, soprattutto rispetto al ruolo e alle responsabilità che ne conseguono. Se però all’emolumento si aggiungono tutti gli extra, si arriva appunto a una cifra di quasi tre milioni di euro (2.749.392, per l’esattezza).
Agit-prop di questa battaglia che qualcuno potrebbe anche definire “neo populista”, ma che qualcun altro considera “legittima e sacrosanta”, visti i tempi che corrono, è l’avvocato Salvatore Lucignano di Napoli, segretario di “Nuova avvocatura democratica” e anche colui che ha consegnato le 20mila firme di protesta all’attuale presidente della Cassa forense in un incontro tenutosi lo scorso 24 febbraio a Roma. L’iniziativa partiva dall’avvocato Goffredo D’Antona di Catania. Ma l’interlocuzione con Luciano, attuale presidente della Cassa forense, è stata definita improduttiva. Adesso i “rivoltosi” minacciano di passare alla “fase B” della protesta: non pagare tutti e quanti i 20mila delle firme raccolte almeno una rata del contributo minimo obbligatorio. Pari a circa 900 euro trimestrali. “Basterebbe a mettere in crisi la cassa”, sostengono i simpatizzanti di questa quasi inaudita protesta.
di Rocco Schiavone