martedì 28 febbraio 2017
Di fronte al progressivo e apparentemente inarrestabile imbarbarimento del confronto politico e della cultura di governo, la tradizione liberale deve necessariamente interrogarsi sul proprio futuro in mezzo a delle sfide e alle problematiche che, da troppo tempo, non vedono i liberali protagonisti attivi e direttamente interessati nei processi decisionali politici, economici e sociali del nostro Paese.
Ormai da tempo, col progressivo allontanamento dell’impegno politico attivo che investe drammaticamente i più grandi partiti, l’elettorato si trova di fronte ad alternative inadeguate che non solo comprimono, quasi combattono, sempre di più, l’idea della democrazia e della partecipazione democratica alle scelte del futuro ma che, soprattutto, non offrono delle risposte adeguate al grido di dolore che la moderna società rivolge alle forze che, almeno sulla carta, si presentano come le più responsabili. Rilanciare l’esperienza liberale in politica, significa, prima di tutto, offrire al vasto pubblico che attende tale svolta, risposte non popolari, risposte non populiste: “la medicina è amara ma il paziente ne ha un disperato bisogno” avrebbe detto Margaret Thatcher.
La cultura liberale, “saccheggiata” negli ultimi vent’anni dalla destra come dalla sinistra, pare fatalmente essere stata svuotata nei numeri anche all’interno dei singoli contenitori. Piccoli raggruppamenti liberali si moltiplicano ma è difficile, anche per chi milita al loro interno, comprendere le rispettive differenze: differenze talmente impercettibili che rendono chiaro come la parcellizzazione della militanza liberale sia una sconfitta per tutti. Per chi è fuori e per chi è dentro. Anche tra di noi, confessiamolo, regna spesso l’egoismo, la cultura dell’uomo solo al comando e la vanità di poter apporre il bollino dell’autentico liberalismo a questo o a quell’altro movimento. Ognuno di questi gruppi e cespugli si ritiene depositario della cultura di Croce, di Einaudi, di Malagodi. Ognuno, interpretando anche capziosamente il proprio pensiero, si erge ad unica alternativa credibile, scomunicando chi osa criticare i propri assunti. Assistiamo ogni giorno, sempre di più, ad cultura liberale fideistica, avulsa dal contesto pratico, che ripete come in un mantra valori e idee che spesso risultano incomprensibili. Come incomprensibili sono le presunte differenze, gettate in campo solo per giustificare le divisioni.
La vera sfida per i liberali di oggi è quindi, prima di tutto, riacquistare prepotentemente l’unità di tutte le forze ideologicamente affini assieme ai connotati della propria tradizione e agli storici temi che hanno permesso a questa area di divenire un’autentica colonna portante per i sistemi democratici. Senza i liberali, senza la loro cultura, senza il loro impegno, oggi avremmo di fronte a noi un’occidente ancora più debole, ancora più populista. Siamo di fronte a un percorso storico che ha fatto tabula rasa degli equilibri politici, finanziari, culturali e sociali che la caduta del muro di Berlino ci aveva consegnato. Ovunque, ma proprio ovunque, assistiamo ad una progressiva ed inesorabile erosione di consenso che investe principalmente le sinistre di governo.
Una perdita di consenso – mi concederete – allarmante anche per la cultura liberale, che assieme alla sinistra ha saputo costruire e dare forza, nel tempo, a sfide nobili e complesse: uno stato laico, l’ampliamento dei diritti civili, la difesa della democrazia e della comunità europea. Quando arretra l’ideale, anche se avverso, a scapito del populismo gli immediati dirimpettai hanno poco da gioire. Badate bene: l’arretramento dei valori della sinistra socialista in tutta Europa, in tutto il mondo, pone i liberali di fronte ad una sfida complessa: allearsi con la destra populista, cavalcando le proteste che investono in primo luogo le elementari regole della democrazia, oppure, costruire, sempre da destra, un’alternativa credibile contestando, in primo luogo, proprio alle culture populiste dirompenti e sempre più dilaganti, la profonda erroneità di un pensiero che porta i popoli e le loro culture a concentrarsi esclusivamente sulle proprie differenze e diffidenze reciproche. La cultura liberale, forse l’unica, di certo tra le prime nella storia, a rendersi conto dell’universalità e della trasversalità, anche frontaliera, dei propri principi, non può, non deve accettare i compromessi con i populismi. Allearsi con i populisti significa allearsi con la paura e con la reciproca diffidenza, significa stringere il patto con chi mina alla base i fondamenti dei propri valori di forza responsabile, seria, credibile. I liberali, da sempre, sono stati protagonisti della diffusione di idee e valori universalmente validi, o quantomeno di principi che la storia ha confermato essere come i più adeguati, nel dato momento storico, a vincere le sfide del passato.
Oggi siamo di fronte all’ennesima sfida complessa che investe, prima di tutto, la nostra esistenza, il nostro modo di vedere la prosecuzione proficua del nostro impegno politico: dove vanno, dove andranno i liberali? Questo è il primo interrogativo che tutti, nessuno escluso, dobbiamo porci. Questo congresso segna, anzitutto, un positivo ritorno al confronto tra diverse anime e diverse modalità di declinazione del pensiero liberale. Cosa dicono i liberali è noto – o così crediamo – a tutti, ma dove vadano, cosa intendano fare i liberali no, non è ancora chiaro. Nemmeno a me. A noi il difficile compito, l’onore, di tracciare la strada, di indicare i percorsi, gli auspici, gli obiettivi per costruire, insieme, una classe dirigente libera e forte.
Le recenti elezioni amministrative romane hanno dimostrato che la fiammella liberale è ancora viva. Fioca, senz’altro ancora irrilevante per determinare un cambio di passo degli equilibri politici ma comunque sufficientemente determinata a provare che una base per ripartire e mettere in moto quel processo di cambiamento, quella tanto agognata rivoluzione liberale, c’è. Quello spazio esiste. Bisogna chiedersi prima di tutto e domandarsi nel profondo il perché della crisi delle nostre idee, dei nostri valori, dei nostri auspici per la società e la democrazia. Nostro compito è, prima di tutto, essere e dimostrare a noi stessi di essere all’altezza di questa sfida, partendo dal semplice presupposto che la nostra area è, e rimarrà, di totale minoranza.
I liberali rappresentano una forza nobile, variegata, colta, financo potente ma di assoluta minoranza. La cultura, l’ambizione di essere maggioranza non ci appartiene e mai potrà appartenerci. E ancora, mai potrà appartenerci la convinzione che i liberali possano, oggi o domani, rappresentare, in Italia, una forza di maggioranza in grado, da sola, di reggere le sfide continue che la società si pone. Eravamo, siamo, saremo minoranza. Serve urgentemente una capacità di sintesi. E allora, il vero tema è quello di decidere dove e come esplicare la nostra nobile tradizione di minoranza. Dove e come tale bagaglio culturale, tale patrimonio di idee, possa essere speso nelle migliori modalità possibili. Siamo sinceri: abbiamo di fronte a noi – lo diciamo sempre – autentiche praterie che, purtroppo, da soli, non siamo mai stati in grado di colmare, di occupare. Questo congresso deve quindi, per prima cosa, avviare una riflessione seria e lucida sul futuro della collocazione politica liberale in Italia perché, una scelta errata o arbitraria, può riconsegnarci, di nuovo, all’oblio e all’irrilevanza politica, sociale ma anche e soprattutto culturale. E rialzarsi, di nuovo, sarà ancora più complesso. Primum vivere.
Dove vanno i liberali, dunque. Certo è che il panorama non è quello dei più invitanti. La crisi di idee della sinistra, dilaniata dall’eterna competizione tra cultura popolare e cultura socialista, lascia senz’altro poco spazio al nostro modo di vedere il mondo. Parimenti, abbiamo di fronte a noi un fronte di centrodestra mai più confuso come oggi, in costante competizione tra chi è, o si dimostra, più radicale, più populista, più sfascista. I liberali, quelli autentici, non possono certo abdicare al proprio ruolo, non possono rinunciare alla collocazione che la storia stessa gli ha dato, per seguire imprudentemente i programmi di piccolo cabotaggio che la destra populista cavalca per arraffare un cospicuo, ma di certo effimero, consenso. Bisogna rifiutare la rincorsa all’intolleranza, all’egualitarismo, al protezionismo, al giustizialismo, all’antipolitica, al populismo.
L’unità e il rafforzamento del processo unificatore dell’Europa comunitaria, è, da questo punto di vista, un principio non negoziabile, irrinunciabile per i liberali. Seguire le sirene delle forze antisistema che hanno la presunzione di comprimere il ruolo dell’Europa con un ritorno alle teorie sovraniste, sarebbe, per i liberali italiani, un grave, un gravissimo, errore. Come pure, un altro abbaglio pericoloso, sarebbe quello di dar manforte a chi ritiene che l’euro abbia rappresentato una sciagura e che quindi, l’unica soluzione, sarebbe quella di riappropriarsi del potere di stampare moneta: un baratro al quale i liberali non possono pretendere neppure di avvicinarsi. Non basta, quindi, dirsi semplicemente europeisti quando non si ha nemmeno l’idea del tipo di Europa che si vuole. È proprio in seno a questa contraddizione che il pensiero liberale ha l’obbligo di ritagliarsi il proprio spazio e il proprio futuro, un futuro di autentica sopravvivenza. Giocare sulle contraddizioni del campo avverso potrebbe sì sembrare una strategia di corto respiro ma servirebbe, innanzitutto, per indicare alla platea liberale, in attesa da anni di segni concreti, che un campo di azione vasto c’è.
Altro ruolo fondamentale che richiede, drammaticamente, il ritorno preponderante dei liberali è quello dell’eterno tema della giustizia e del giustizialismo, due termini spesso travisati e ritenuti sinonimi da chi, come le forze populiste, ritiene che spetti alla magistratura, e solo alla magistratura, il ruolo di preservare l’etica e il corretto andamento della vita del Paese. I liberali sono stati i precursori, i teorizzatori, della netta separazione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. Pretendere che il ruolo spettante alla politica possa essere supplito dalla magistratura renderebbe vano lo sforzo bicentenario di assoggettare la magistratura alla legge e alla volontà generale correttamente rappresentata dalla democrazia parlamentare che ci connota e che ci regola. Chi crede che la politica, a fronte della propria inadeguatezza ed incompetenza, possa abdicare al proprio ruolo, delegando alla magistratura il compito che essa non riesce, per palese incompetenza, a portare a termine – chi crede questo - non è liberale. E con i liberali non c’entra nulla.
Un discorso valido anche per chi ritiene che lo Stato, nel XXI secolo, debba ancora ritagliarsi un ruolo egemone nell’iniziativa economica: chi propugna uno Stato attore e allo stesso tempo arbitro di una partita alla quale lo Stato stesso prende parte, non è, non può, essere liberale. Le partite truccate ci ripugnano, l’arbitro che gioca ci fa inorridire. Il pericoloso avanzamento delle forze politiche che pretendono ancora, nonostante i palesi fallimenti del passato, il ritorno del “tassa e spendi” pone i liberali di fronte ad una scelta di campo irrinunciabile ma il cui passaggio e formalizzazione richiederà una profonda riflessione. Troppo debole, troppo afona, la voce dei liberali sulle liberalizzazioni del mercato e della spesa pubblica. È tempo di tornare a far sentire questa voce.
Per guidare questi passaggi serve una classe dirigente preparata, colta, esperta ma che sia anche capace di prendere atto dei fallimenti del passato. Parliamoci chiaro: da troppo tempo siamo ridotti all’irrilevanza di fatto, chiusi in un cantuccio e pronti ad attendere sulla riva del fiume il cadavere dell’avversario di turno, per il solo gusto di poter dire “ecco, avevamo ragione”. Questo non è il ruolo di un partito liberale, i liberali non meritano una casa e un contenitore del genere.
Ho sentito spesso dire, anche all’interno del Partito Liberale Italiano, che sarebbe impossibile pensare ad una varietà di componenti ideologiche, soprattutto critiche verso chi governa il partito, perché tale composizione minerebbe l’unità del Partito stesso. Sono balle. Preservare l’unità del Partito è una sfida complessa che non è possibile vincere silenziando il dissenso interno. Anche questo, non è liberale. Non è da partito liberale. Le voci dissenzienti, presenti e vigorose anche in un Partito piccolo come il nostro, non sono da scoraggiare, non sono da condannare. È necessario che l’attuale dirigenza prenda atto dell’esistenza di un’area critica, certo più cospicua rispetto al passato, che pretende risposte chiare di fronte ad interrogativi chiari.
Personalmente ritengo che sperare e lavorare per un graduale mutamento dell’assetto esecutivo del nostro Partito sia una legittima aspettativa, non una pericolosa deriva eversiva. Se posso apportare qualche critica all’attuale dirigenza, alla quale rendo il merito di aver lottato senza sosta per tenere accesa quella fiammella liberale di cui parlavo precedentemente, è proprio quella di una difficile accettazione della realtà: non si aumenta il consenso interno combattendo il dissenso, silenziando le voci critiche. Non si raggiunge l’unità nominando responsabili di settore un minuto dopo l’adesione di questi al Partito. Non si raggiunge l’unità eludendo la discussione e il confronto nelle sedi preposte, per Statuto, a ricomporre eventuali divergenze. Nel recente passato abbiamo assistito ad una lunga fila di eminenti personalità politiche che, a torto o a ragione, si sono allontanate dal Partito per dissensi prolungati con la dirigenza. Una dirigenza che – almeno così è parso – invece di lavorare per la ricomposizione delle fratture restava impassibile all’allargamento del solco scavato, anche colpevolmente, tra i “dissidenti” ed essa stessa. Non è questo il partito liberale che vogliamo. C’è la convinzione che questo congresso abbia sulle proprie spalle la responsabilità di determinare la continuazione di questa politica o, viceversa, di mutare indirizzo. Mi auguro che il tutto possa avvenire senza strappi, senza scomuniche e senza strascichi polemici. Il Partito Liberale Italiano non può permetterselo. I liberali, noi tutti liberali, non possiamo permettercelo.
di Simone Santucci