Trojan, diritto penale e prova scientifica

martedì 28 febbraio 2017


Se iniziative come il convegno “Tra scienza e diritto: il metodo scientifico nel processo penale” - organizzato giorni fa dalla sezione romana del Laboratorio Permanente Esame e Controesame (La.P.e.c.), dal Consiglio nazionale Forense e dalla Camera Penale di Roma - uscissero dal ristretto coté di giuristi ed esperti o appassionati conoscitori che solitamente vi partecipano anche come uditori e fossero accessibili alla società civile, le si renderebbe il gran servizio di offrirle spunti per avvicinarsi alle tematiche su cui si incardina lo stato di diritto, la democrazia e la libertà di ogni cittadino. E il cammino verso l’attuazione dello stato di diritto sarebbe probabilmente più condiviso da un’opinione pubblica tanto digiuna dei principi delle norme di garanzie e dei diritti individuali, quanto noncurante della contrazione che di essi si opera molto spesso in nome della legalità e della sicurezza.

Interventi di gran livello si sono dipanati intorno al rapporto tra il metodo scientifico e il “ragionamento” giuridico e su quale sia il margine di convergenza tra i due approcci. Protagonista, pochi giorni prima dall’approdo in Senato del disegno di legge sulla riforma del processo penale cui si aggancia una specifica proposta di legge per legittimare e regolamentare l’uso di captatori informatici nelle indagini, il delicato e scivolosissimo tema dei Trojan di Stato; software spia che inseriti in un pc, tablet o cellulare ne assumono il controllo totale da remoto in modo tale che il proprietario venga sorvegliato in tutte le sue attività. Colmo di implicazioni sul fronte della tutela dei diritti e delle garanzie del singolo, al tema del Trojan già aveva dedicato attenzione il grande avvocato penalista Ettore Randazzo che del La.P.e.c. è stato presidente fino alla sua recente scomparsa e a cui in apertura del convegno è stato tributato un sentito e condiviso omaggio di cordoglio, anche da parte del presidente della Camera penale romana Cesare Placanica, dall’avvocato Valerio Spigarelli e in particolare nelle parole del Primo presidente della Corte Suprema di Cassazione, Giovanni Canzio, che di Randazzo ha rammentato proprio l’impegno contro l’abuso strumentale dei capi di imputazione di criminalità organizzata a carico degli imputati per poterli porre sotto controllo da remoto. Un tributo doveroso a chi ha avuto il merito di aver sollecitato con tanta passione un nuovo metodo di confronto e discussione tra i vari protagonisti del mondo della giustizia, con l’obiettivo di accogliere le sfide future che esso è chiamato ad affrontare data la fluidità che contraddistingue i rapporti tra lo scenario processuale e i nuovi strumenti di indagine.

Ma ci si è confrontati anche sulla funzione dei protocolli scientifici nell’acquisizione e valutazione delle prove, sulla prova statistica, sul metodo e sulle nuove tecniche scientifiche nel processo penale, sui rischi che comporta l’ingresso a gamba tesa delle neuroscienze nello stesso, con citazione delle sentenze principali per la storia della prova scientifica, come la Franzese, la sentenza Cozzini ma anche la Scurato, che il 31 gennaio scorso ha aperto la via all’utilizzo dei Trojan nei processi di criminalità organizzata e terrorismo, e la sentenza Sollecito/Knox.

Il tema è vischioso, e pur affrontandolo dalla premessa che è impensabile bloccare il percorso di avanzamento tecnologico, si impone l’urgenza di stabilire come passare dall’invasività degli strumenti telematici a un loro ingresso regolato nello scenario processuale, e di come far confluire le tecniche scientifiche nel procedimento. A cominciare dall’osservazione del quadro normativo e di regole certe su cui si incardina il giusto processo, nel caso del Trojan operando una distinzione di ciò che è utile e ciò che non lo è, essendo uno strumento che per le sue modalità applicative rappresenta una perquisizione totale, una vivisezione dell’individuo che è totalmente dentro il suo dispositivo mobile o computer. Sbalorditivo l’intervento del tenente colonnello del Racis dei carabinieri di Roma, Marco Mattiucci, che ha fornito un quadro inquietante dell’evoluzione che in vent’anni ha avuto l’utilizzo dei software, dell’intero settore informatico digitale e della telefonia mobile nelle indagini, nell’intento di aggirare l’incremento delle misure di sicurezza dei dati offerta agli utenti dai gestori delle varie piattaforme. Ovviamente si è trattato di ricorso non regolamentato, che solo alcune indagini di richiamo mediatico hanno lasciato affiorare. Sequestri, inseguimenti digitali e copie di dati, copie analisi di dati criptati e manipolazione dei software del computer sotto indagine.

La proposta di legge a firma Stefano Quintarelli tenterà dunque una regolamentazione altrimenti affidata all’interpretazione giudiziaria data il 31 gennaio e che, in tema di acquisizioni a distanza, deve recepire la sfida ciclopica di non arretrare sul fronte del contrasto dei fenomeni delinquenziali e terroristici affrontando la serie infinita e fluida di criticità racchiuse in questo ambito dell’esercizio giuridico che investono la violazione dei diritti e garanzie del singolo tutelate costituzionalmente e dal Codice di procedura penale. Dal diritto alla riservatezza, a quello alla libertà di comunicazione e alla libertà di privato domicilio. E se pure si registra una certa difficoltà nell’adattare i codici alle tecnologie analogiche, resta l’urgenza, come ha spiegato il professore di Diritto costituzionale, Cesare Pinelli, “di non lasciare vuoti legislativi data la necessità di una regolamentazione dell’uso del Trojan da parte della magistratura e delle forze di polizia”.

Finora, per fare un esempio della complessità del quadro giuridico in cui il Trojan verrebbe applicato e usato, è stato paragonato a un’intercettazione mentre consiste in un’acquisizione dati dal dispositivo personale del passato del presente e del futuro di un individuo. E ancora, per le intercettazioni, per le quali sono previste motivazioni codificate e controllo giurisdizionale, è necessaria la richiesta del pm al gip e, al momento, l’uso del Trojan si permette solo in caso di terrorismo e di criminalità organizzata e terrorismo, ma la mancanza di una definizione di quest’ultimo che comprende anche la delinquenza semplice apre ampi margini di discrezionalità nell’inserimento di tali capi di imputazione a carico del singolo al solo fine di aprire la via all’uso del Trojan. E nemmeno il punto di equilibrio cui sarebbe giunta la regolamentazione della materia equiparando il Trojan a una intercettazione ambientale sembra adeguata: cosa si intende per ambiente? Si procede a raggio carpendo conversazioni di terzi presenti nello spazio di reperibilità? Il rischio è una effettiva torsione dei mezzi tradizionali e codificati di ricerca della prova.

“Il punto, oltre che di tutela della competenza giurisdizionale - come ha spiegato il professor Pinelli - è di non ammettere disinvolture nei confronti degli articoli 14 e 15 della Costituzione sull’inviolabilità del domicilio e sulla libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione”. Il Trojan va infatti molto oltre i confini della legittimità o meno di installazioni di dispositivi elettronici per le intercettazioni regolate dagli articoli 614, 615 del Codice penale e dagli articoli 266 e 267 del Cpp. Molte le incognite ancora aperte prima che si riesca a contemperare valori e interessi legittimi per una soluzione sul suo uso, sia sul piano giuridico che politico-istituzionale. Tanto che il Gip del Tribunale di Roma, Costantino De Robbio, ha lanciato la proposta di un protocollo condiviso tra avvocati e magistrati anche per vietare di delegare ai privati l’attività di installazione del Trojan. E se, come ha osservato l’Avvocato generale della Corte di Cassazione, Nello Rossi, “non è pensabile lasciar perdere il controllo di informazioni che attraversano i moderni canali di comunicazione in una fase in cui il terrorismo è minaccia reale”.

L’invasività di queste tecniche che “possono influire sugli equilibri del processo tra accusa e difesa e tra fase delle indagini e quella dibattimentale e sui diritti e le prerogative del giusto processo” chiama in causa anche l’altro tema del convegno, i protocolli di acquisizione e valutazione delle prove scientifiche, come il Dna, di cui è necessario governare l’ingresso nei processi e definire il metodo. Un’esigenza ancor più sentita in un momento storico in cui lo zeitgeist premia e rende più redditizia la forza dell’immediatezza, la presunta chiarezza e rigore e la semplificazione, e impone una riflessione sul protagonismo delle evidenze scientifiche nel percorso processuale, investite di un potere taumaturgico e di svelamento della verità assurte a panacea contro i limiti della giustizia. Mentre gli ultimi processi di cui si è ossessivamente occupata la cronaca giudiziaria hanno svelato il loro lato fallace o discutibile nell’individuazione della verità. Come puntualizzato dalla dottoressa Sandra Recchione, Giudice II Sez. penale, Cassazione, “non si tratta di una battaglia per una riappropriazione di potere di categoria, ma di farsi carico di come gestire la prova scientifica a tutela del singolo che ha di fronte l’apparato delle forze di polizia, giudice, pm che può schiacciarlo”. E il professore di Procedura penale, Adolfo Scalfati, ha rafforzato il concetto: “Il metodo scientifico deve essere funzionale alle regole del processo penale”. Tutti d’accordo insomma sul fatto che nel percorso attraverso cui si conclude una controversia secondo norme precise il contraddittorio non può esser sostituito da alcun altro strumento nell’individuazione della prova. Vale la pena in proposito dare una letta alla sentenza Cozzini, dove parla di primato dato alle “emergenze fattuali” e al “ragionamento probatorio in chiave induttiva, cioè sulla base della mera analisi logica dei fatti”. Sotto la lente di ingrandimento finiscono anche le neuroscienze, che il professor Scalfati ha definito “pericolosissime”, in quanto strumento di violazione di norme e liberta inviolabili se lasciate entrare nel processo a gamba tesa. “Il Cpp vieta infatti ogni intervento a carattere probatorio che leda la libertà, indisponibile, dell’individuo”.

I motivi di allarme sono concreti, eccome. Le tecniche neuroscientifiche hanno infatti l’obiettivo di entrare “interna corporis” del soggetto e nella sua sfera intima per carpire elementi con metodologie che confliggono con le regole del processo penale. E se manca, secondo Margherita Cassano, Presidente della Corte d’Appello di Firenze, “la coscienza della fallibilità della scienza” oltre a una modalità diversa di ricorso ai periti di parte, “uno spiraglio è l’aumento di consapevolezza dei giudici e conseguente cambio di metodo di lavoro e una nuova lettura della prova scientifica”. Su questa rotta il contrasto si consuma sul piano dei modi processuali, uno più autoritario che ritiene la prova scientifica aver capacità dimostrativa, l’altro teso ad estendere l’obbligo di motivazione della sentenza del giudice anche ai processi decisionali basati sugli strumenti scientifici. In soccorso proprio la sentenza Franzese attribuisce priorità al contraddittorio anche se il processo è fondato su prova scientifica secondo il principio che tanto più forte è quest’ultima tanto più deve incardinarsi sul contraddittorio, per arrivare a sentenza oltre ogni ragionevole dubbio.

L’avvocato Cataldo Intrieri, anima del La.P.e.c. di Roma e organizzatore con Sabrina Lucantoni dell’iniziativa, sul nesso di causalità tra la condotta negligente del medico e l’evento dannoso, ha dichiarato che “non esiste ancora un linguaggio tra scienza e diritto e questo costituisce un rischio grave di sentenze sperequative nei vari casi”. A lui la constatazione sul filo dell’ironia che il convegno, nelle intenzioni destinato a conciliare approcci così diversi come quello giuridico e quello scientifico, ha in realtà finito per rinsaldare la divaricazione tra prove ad alta tecnologia, metodo, prova e protocolli scientifici e diritto penale.

Il confronto resta aperto e questo non è affatto un male.


di Barbara Alessandrini