Poletti, il Jobs Act e la tempesta perfetta

sabato 24 dicembre 2016


L’infelice frase sui giovani in fuga dall’Italia è costata al ministro Giuliano Poletti un fuoco incrociato di critiche bipartisan e una mozione di sfiducia sia alla Camera che al Senato, ma ha anche sortito un effetto “evasivo”, concedendo un attimo di tregua sul tema che costituirà il vero fronte caldo di inizio 2017.

Poletti ha infatti smesso, almeno per il momento, di essere bersagliato dalle imbarazzanti domande sul Jobs Act e sul referendum proposto dalla Cgil, cui aveva invano tentato di sottrarsi rispondendo elusivamente che tanto si andrà alle elezioni prima del referendum sul Jobs Act e che quest’ultimo verrà rinviato. Questa momentanea tregua consente a lui e al suo partito di riprendere fiato e di ripensare alla strategia da adottare prima che le opposizioni e, soprattutto, le minoranze interne al Pd rinserrino le fila per sferrare un attacco massivo nei confronti del Jobs Act. La cronaca di questi giorni mostra infatti tutti i segnali che quella che sta per scatenarsi è una tempesta perfetta, che rischia di sgretolare dall’interno il Partito Democratico: Roberto Speranza, che insiste per modificare il Jobs Act e minaccia “via i voucher o sfiducia”; il sindaco di Bologna, Virginio Merola, che si schiera apertamente con la Cgil e annuncia un’iniziativa cui confida aderiranno Gianni Cuperlo, Giuliano Pisapia, e Luigi Zanda; e via discorrendo.

D’altra parte, difesa ad oltranza dell’articolo 18 e guerra ai contratti flessibili, accusati di rendere precaria l’occupazione, sono la tigre che la sinistra cavalca da decenni, ed è normale che ora che governa i nodi vengono al pettine. Il guaio è che il Jobs Act è forse il provvedimento di maggiore impatto, anche simbolico e mediatico, delle politiche di Renzi e il contratto a tutele crescenti, quello che per i nuovi assunti elimina l’articolo 18 e la reintegrazione, ne costituisce il fulcro. È quindi evidente che il referendum abrogativo proposto dalla Cgil offre alle opposizioni esterne e alle minoranze interne un’occasione straordinaria per assestare un colpo decisivo all’ex Premier.

È vero. Il quesito sull’articolo 18 è traballante e potrebbe anche non essere ammesso, ma quelli sui voucher e sulla responsabilità solidale negli appalti non corrono rischi. E in ogni caso, affidarsi alla speranza di una bocciatura da parte della Corte costituzionale, così come invocare una corsa al voto per evitare il referendum rappresenta un azzardo, oltre che un segno di debolezza. Le politiche del lavoro sono una cosa seria, su cui si gioca una partita importante per il futuro di tutti. L’Italia non può permettersi un nuovo irrigidimento della disciplina dei licenziamenti, né di perdere la faccia in Europa. Le imprese non possono sopportare un radicale cambiamento delle carte in tavola dopo che hanno proceduto ad assunzioni a tempo indeterminato confidando nelle “tutele crescenti”. I giovani non possono accettare un ritorno al passato che offre enormi tutele a chi è già occupato ma non si cura di chi un lavoro ancora lo deve trovare.

La tattica da “temporeggiatore”, alla Quinto Fabio Massimo, è un lusso che l’attuale Governo non si può permettere. Il referendum rischia di scoppiargli tra le mani come una bomba ad orologeria, in uno scenario politico che oggi non è possibile prevedere. Dunque occorre intervenire. E pure in fretta. Sull’articolo 18 sarebbe sufficiente rivedere l’attuale disposizione, casomai correggendone, con l’occasione, gli errori e riscrivendo le parti fonte di maggiori dubbi interpretativi, senza però spingersi a ripristinare la reintegrazione per qualsiasi tipo di licenziamento, com’era nello Statuto dei lavoratori del 1970. Sui vuocher poi occorre considerare che si tratta di una figura introdotta dalla Legge Biagi per favorire l’emersione di prestazioni occasionali frequentemente svolte in nero (la vendemmia, le lezioni private, ecc.). E, circondanti da molte cautele, i voucher hanno in passato avuto un utilizzo “fisiologico”. A liberare dalle cinghie i voucher sono stati la Legge Fornero e il Governo Letta e il boom è conseguenza di questa progressiva liberalizzazione. Basterebbe dunque tornare alla versione ante 2012, lasciando in vita gli obblighi di comunicazione recentemente introdotti, e la questione sarebbe risolta.

Se invece il Governo non avrà la forza o la volontà di assumersi le proprie responsabilità e se si dovesse arrivare al referendum temo che a cavalcare il fronte del “Sì” saranno in molti, soprattutto in vista di una campagna elettorale in ogni caso non troppo distante. Con buona pace dell’interesse del Paese.

(*) Professore di Diritto del lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia


di Giuseppe Pellacani (*)