Annichiliti

martedì 6 dicembre 2016


Una legnata senza precedenti in un referendum tanto importante. Una mazzata di quelle che non lascia scampo a nessun tentativo di giustificare la sconfitta con la tesi dell’uno contro tutti. Una tesi a dir poco ridicola non solo perché l’uno, Matteo Renzi, è il Premier, con tutto ciò che significa in termini di forza, ma poi perché al suo fianco si è schierata un’intera armata nucleare: Confindustria, Fiat, Abi, Cisl, Unione europea, attori di grido, mezzi d’informazione, grandi testate e ovviamente tanta Rai, tutti dalla parte di Renzi per cercare di condizionare, suggestionare, impaurire e convincere a votare “Sì”.

Dunque, chi dice Renzi contro il resto del mondo, mente sapendo di mentire; mente sapendo che è vero esattamente il contrario, mente sapendo che niente potrà impietosire e addolcire il giudizio sul Premier. Del resto, anche nella conferenza stampa lampo che l’altro ieri Renzi ha tenuto per annunciare le dimissioni, non è mancata quella infingarda spocchia che è stata sin dall’inizio la sua principale caratteristica. Non basta, infatti, riconoscere la sconfitta. Uno statista vero avrebbe ammesso i suoi sbagli, i suoi limiti, avrebbe ammesso le forzature su un tema che per principio non può ammetterle. Ecco perché il discorsetto d’addio di Renzi non commuove e non mitiga il disappunto per aver trascinato il Paese in uno sbaglio del genere.

Tre anni persi dietro ad un diktat nato dalla volontà di un altro e più importante responsabile, Giorgio Napolitano. Tre anni di votazioni imposte, di utilizzo di transfughi e obblighi di partito. Insomma, non ci sono attenuanti di fronte a un errore tanto catastrofico quanto scellerato voluto e compiuto non in nome degli italiani, ma in nome della smisurata voglia di potere e di gloria personale di Renzi.

Dentro la straordinaria vittoria del “No”, infatti, non c’è solo la difesa della sovranità popolare, dei pesi e contrappesi costituzionali, degli equilibri democratici, ma c’è la bocciatura di un triennio di fallimenti. Parliamoci chiaro, se l’Italia si è tenuta in piedi ed è riuscita a galleggiare, se è salita dello zero virgola qualcosa, il merito è tutto e solo di Mario Draghi, punto. Tanto è vero che se al posto di Renzi avessimo avuto un Premier coraggioso e attento, ben altri risultati avremmo potuto ottenere da una congiuntura così favorevole. Il Governo ha sprecato in tre anni decine di miliardi di euro a scopo elettorale, così come a scopo elettorale ha scodellato provvedimenti che nascendo figli dell’ipocrisia non potevano che fallire in larga parte.

Insomma, tutto è stato fatto a metà senza quel coraggio di prendere il toro per le corna e affrontare fino in fondo i temi bollenti del Paese. A metà l’intervento sulla Legge Fornero (Ape), a metà quello su Equitalia, a metà il Jobs act, per non parlare di ciò che non è stato fatto per niente, a partire dall’immigrazione. Ecco perché nella bruciante sconfitta c’è di tutto e tutto giustamente doveva esserci, in aggiunta a una riforma costituzionale improponibile, rischiosa e pericolosa. Con il “No” insomma si chiude un’esperienza nata male, nata da una forzatura scriteriata voluta da Giorgio Napolitano, si chiude l’esperienza di un Governo non eletto, pieno di transfughi, sostenuto da una maggioranza ibrida. Adesso spetta al capo dello Stato, Sergio Mattarella, indicare il percorso per un Governo che abbia i numeri per riscrivere la legge elettorale, approvare la Finanziaria e gestire il Paese fino a nuove elezioni.

Per questo serve che il fronte del “No” non si sottragga alle responsabilità che la vittoria gli consegna, come altrettanto serve che facciano gli sconfitti. Serve un Premier autorevole sostenuto da una maggioranza politica responsabile nei confronti degli italiani e delle necessità del Paese; serve per il tempo necessario a sciogliere le Camere e tornare al voto. Ecco perché annichilito per sempre ogni tentativo di scorciatoie per modificare la Carta che pure ha bisogno di aggiornamenti, serve adesso e presto di riprendere il cammino per il futuro di tutti. Occorre che ognuno torni al suo posto di lavoro per consentire che in un tempo ragionevole, ma piuttosto breve, gli italiani possano tornare ad esprimersi, stavolta, su chi vorranno che li guidi verso il domani.


di Elide Rossi e Alfredo Mosca