venerdì 2 dicembre 2016
Nella letteratura costituzionalista è ricorrente la riflessione per cui le costituzioni si cambiano in due modi: 1 - per autoriforma, 2 - a causa di eventi esterni, talora gravi, o drammatici. È questo il caso della costituzione della V Repubblica francese, voluta da De Gaulle nel 1958, per fronteggiare la crisi algerina.
L’Italia ci sta provando da più di trent’anni ad autoriformarsi, a partire dalla Commissione Bozzi (1983-1985), la Bicamerale De Mita-Iotti (1993-1994), la Bicamerale D’Alema (1997), la riforma Berlusconi (2005-2006), la Commissione Quagliariello (2013). Cammin facendo, le più diverse ragioni contingenti della contesa quotidiana hanno sempre imposto, però, il veto e il rinvio a dopodomani. Ci risiamo.
I punti da riformare sono sempre gli stessi, condivisi quasi da tutti: si tratta soprattutto di creare un governo che governi. Non si tratta però solo di questo, nonostante l’insipienza dei protagonisti dell’odierno confronto referendario. Che cosa ci giochiamo allora col referendum?
Gli Stati Uniti di Donald Trump minacciano di chiudersi nel protezionismo ante Bretton Woods. La Cina, con un’“originale” formula neocapitalista di stampo comunista, inginocchia le economie occidentali. La sicurezza europea è sotto scacco da parte delle teocrazie islamiche. Le oligarchie familiste e tribali dell’Africa sospingono crescenti masse di popolazione disperate oltre il Mediterraneo. La Turchia si sta reislamizzando.
Di fronte a questo scenario degli squilibri del Mediterraneo e del mondo, l’Europa continua a brancolare nel labirinto dei parametri economici di Maastricht, apparentemente ignara che le paure dell’Occidente richiederebbero risposte rassicuranti soprattutto sul piano della coesione e della politica globale. Nell’assoluta evanescenza dell’Europa e dei suoi valori, i cosiddetti populismi hanno buon gioco a rivendicare più nazione, più protezione, più identità patriottica. Si dovrebbe sapere però che è proprio lo scollamento dei Paesi europei e il loro procedere in ordine sparso, a farci perdere l’unica cosa che ci fa ricchi: lo Stato liberale. Se questo è lo scenario. Se Trump intende veramente affievolire l’ala protettiva degli Usa sull’Europa, agli Stati europei non resta altro che rafforzare la capacità dell’insieme delle proprie istituzioni, a salvaguardia della democrazia liberale. Nonostante questo scenario, noi ci stiamo dilaniando in una campagna referendaria che perde di vista tutto il resto. Che senso ha lamentare il rischio di un uomo solo al comando per effetto dell’introduzione del voto a data certa dei ddl del Governo? Che senso ha discettare se sia più garantista per l’elezione del Presidente della Repubblica la maggioranza dei 3/5 dei votanti, piuttosto che la maggioranza assoluta dei componenti? Che senso ha tacciare di autoritarismo l’introduzione della clausola di supremazia dello Stato sulle Regioni? C’è in tutti gli ordinamenti regional-federali. Che senso ha denunciare la violazione del principio di sovranità, per screditare il criterio che pur assegna i seggi del nuovo Senato “in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio regionale”? Che senso ha, per contrastare il nuovo Titolo V, gridare all’attentato all’articolo 5 della Costituzione, quando in quello stesso articolo si legge che la Repubblica è “una e indivisibile”. Così di seguito.
Nel fronte del “No” c’è chi avrebbe voluto più governo e chi meno. C’è anche chi non è interessato né al Governo né all’Italia. Al movimento di Grillo, per esempio, interessa solo la denigrazione dell’intero sistema dei partiti, per raccoglierne l’eredità. La riforma costituzionale contiene il minimo indispensabile. È poca cosa, ma serve. Si poteva fare di più? Si poteva scrivere meglio? Nel 1947, il presidente dell’Assemblea costituente, Terracini, alla fine dei lavori, incaricò due letterati: Pietro Pancrazi e Antonio Baldini di rileggere ogni articolo della Costituzione per dargli stile, eleganza, proprietà di linguaggio. Questo manca. Ma, non basta per votargli contro.
di Guido Guidi