martedì 8 novembre 2016
Nulla ci convincerà a far parte di quella sorta di plotone d’esecuzione che ha condannato l’attuale Costituzione quale presunta colpevole di tutti i mali del Paese. Questo plotone, infatti, sa bene che i mali dell’Italia nascono non certo dall’imperfezione della Carta, ma dall’uso che la politica ne ha fatto nel corso dei decenni. Questa specie di killeraggio, che il fronte del “Sì” ha messo in piedi per stravolgere malamente la legge fondamentale, suona, infatti, più come una forma di condono storico e tombale sulla gravità dei comportamenti dei politici e dei governi dal 1948 a oggi. Insomma, una sentenza “a prescindere” che, in un colpo solo, vorrebbe per un verso cambiare in peggio e per l’altro eludere definitivamente le enormi responsabilità dei Parlamenti e delle maggioranze che si sono succedute.
Qui non si tratta di negare l’utilità dei necessari aggiornamenti di cui la Costituzione ha bisogno, ma di ristabilire la verità rispetto ai motivi per i quali il nostro Paese è venuto su storto. Non è stata, infatti, la Costituzione a generare l’enormità del debito che portiamo addosso, la corruzione e gli sperperi pubblici, l’ampliamento folle dell’apparato statale, l’espansione inutile della burocrazia. Perfino la responsabilità addossata al bicameralismo perfetto, quale matrice di lentezza e immobilismo legislativo, è largamente fasulla, sia perché in Italia di leggi ne sono state fatte troppe e male, sia perché quando si è voluto la velocità parlamentare c’è stata eccome.
Come se non bastasse, è arcinoto che il numero eccessivo di governi che il Paese ha avuto nasce solo ed esclusivamente da opportunismi politici e da leggi elettorali che non sono materia costituzionale. Per questo votare “No” al prossimo referendum significa non solo riabilitare la Costituzione da colpe che assolutamente non ha, ma creare le condizioni per un aggiornamento serio dei capitoli logorati dall’evoluzione della società, dell’economia e dell’habitat geopolitico.
Tra questi spiccano certamente la forma di governo, l’assetto e i poteri speciali delle Regioni, il numero dei parlamentari di entrambi i rami, la specializzazione delle Camere, l’ordinamento giudiziario, la riqualificazione dei pesi e contrappesi. Guarda caso si tratta di argomenti che la riforma Renzi/Boschi ha eluso del tutto, oppure sfiorato appena con interventi posticci, parziali, peggiorativi e prospetticamente rischiosi soprattutto se abbinati all’Italicum. Ecco perché votare “No” significa stoppare una riforma che non modifica ciò che andrebbe aggiornato e intacca invece ciò che andrebbe salvaguardato a garanzia della sovranità popolare e delle prerogative democratiche. Insomma, oggi all’Italia serve una forma di governo potenziata ma bilanciata, poteri locali nuovi piuttosto che speciali, Camere snelle ma nettamente e non parzialmente distinte. Serve un ordinamento giudiziario rielaborato con poteri e carriere separate e con oneri e onori definiti e un Parlamento restituito a un’immunità adeguata, ma sottoposto al vincolo di mandato. È proprio per questo che ogni modifica della Costituzione necessita di una partecipazione e di una base di consenso vasta, a garanzia degli equilibri democratici. Ecco perché il referendum se per un verso rappresenta la lungimiranza dei Padri costituenti, per l’altro testimonia i limiti di condivisione, in mancanza dei quali il rischio dovuto alle forzature della riforma Renzi/Boschi resta vivo eccome.
Insomma, questa riscrittura della Carta nasce e cresce male, arriva allo scrutinio popolare viziata da presupposti sbagliati e forzature parlamentari. La Carta del 1948 non solo non ha colpe che la condannino a stravolgimenti che non merita, ma si porge al Parlamento per quegli aggiornamenti che ne migliorino il funzionamento a favore della democrazia e non dei capipopolo e fanatici di turno. Ecco perché solo votando “No” si potrà stimolare una sua riscrittura largamente maggioritaria, restando nel nobile e faticoso solco dei Costituenti, che non a caso nel 1947 la approvarono con 458 voti favorevoli e 62 contrari.
di Elide Rossi e Alfredo Mosca