mercoledì 5 ottobre 2016
Il discorso del presidente Jean-Claude Juncker sulla crisi dell’Europa davanti al Parlamento riunito e l’inconcludente, e per noi negativo, summit di Bratislava non hanno affrontato, e forse non potevano, le vere cause di questa crisi, che il referendum ungherese conferma. In realtà l’Europa non funziona perché non è Europa, ma solo un organo sovranazionale, con poteri piuttosto estesi ed esercitati burocraticamente, in cui però le decisioni non sono frutto di una reale democrazia partecipativa - un uomo, un voto - estesa a tutti, greci come tedeschi, perché le istituzioni realmente federali come il Parlamento non hanno veri poteri, mentre esiste di fatto un “direttorio” degli Stati dominato da quelli più forti. Per capire vediamo com’è stata la nostra unificazione.
All’atto dell’Unità d’Italia, si produsse, per effetto delle differenti condizioni politiche ed economiche, un fenomeno di afflusso dei capitali nel triangolo industriale che diventò il produttore naturale di beni e servizi per tutto il mercato italiano, mentre le legislazioni pre-unitarie vennero uniformate in quella italiana, che riproduceva il modello piemontese. Ma non fu una partita con vantaggi unilaterali, perché l’unità statale politica portò il siciliano Francesco Crispi alla Presidenza del Consiglio, il napoletano Armando Diaz alla testa dell’esercito, il debito pubblico del regno borbonico ad essere assorbito in quello nazionale, il sistema ferroviario e quello scolastico ad essere estesi all’Italia intera e infine all’accesso di centinaia di migliaia di meridionali negli impieghi pubblici. Se anziché uno Stato nazionale, l’Italia fosse divenuta una semplice unione doganale e monetaria, con la sopravvivenza dei vecchi Stati, dei loro vizi e dei loro debiti, con un Parlamento unitario simbolico e una guida di diritto e di fatto delle regioni più forti, solo il Nord ne avrebbe tratto qualche (minore) vantaggio, il Sud nulla, avendo perso la piena sovranità senza guadagnare l’integrazione. Ed è quello che rischia questa Europa nel rapporto tra gli Stati membri.
La vecchia costruzione europea era un’istituzione abbastanza amata, perché semplice e chiara nella sua struttura di mercato comune e vista come superamento delle guerre civili europee, il cui ricordo era ancora molto vivo. L’idea iniziale, comune a Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman, di procedere per gradi ad una vera integrazione, era corretta, l’approccio, pur tra iniziative in parte riuscite (la politica agricola per l’indipendenza alimentare) ed altre fallite (l’Euratom e la Comunità europea di difesa) era ragionevole, ma non teneva conto sufficientemente che non poteva essere un processo lineare, perché vi sono delle scelte a soglia che ne comportano, necessariamente e contemporaneamente, delle altre intimamente connesse, pena un effetto negativo controproducente. Le più importanti, significative e gravide di conseguenze, anche simboliche, sono state la moneta comune e la politica migratoria.
L’Euro, la più concreta realizzazione della logica europeista, era in sé un’ottima idea, capace non solo di accelerare fortemente l’integrazione europea, ma anche di produrre effetti economici strutturalmente positivi, a patto però di essere accompagnato da due condizioni fondamentali: la messa in comune dei debiti pubblici nazionali e una politica di bilancio comunitaria, perché la Banca centrale europea, da sola, non poteva bastare. Senza queste due condizioni, necessarie per la gestione di una politica economica e monetaria comune, da parte di una autorità pure comune e democraticamente condivisa, l’Euro rischiava di trasformarsi o in una moneta debole con un valore inflazionato dai Paesi più inclini alla spesa a debito o in un obbligo cogente di rigore per questi ultimi, imposto da un’autorità però non autenticamente federale, ma solo interstatale e dominata dai Paesi più forti, anche se nominalmente rappresentativa di tutti.
Con le regole di stabilità, rafforzate dal fiscal compact e da un rigore un po’ ragionieristico della tecnocrazia di Bruxelles, si è imposta la seconda linea e qui sono cominciati i guai, perché, nelle opinioni pubbliche di molti Paesi, si è fatta strada la convinzione di essere soffocati da imposizioni di autorità straniere e non di un governo realmente comunitario. Un errore speculare si è commesso con l’immigrazione, dove, in assenza di una reale politica europea dei confini e dei flussi, si è di fatto imposta una politica del “siamo buoni ma col territorio altrui”, pensando che la regola dell’accoglienza nei Paesi di primo arrivo, potesse salvaguardare gli altri, senza tener conto che un’immigrazione clandestina non rispetta nessuna frontiera e che, alla lunga, si sarebbe arrivati a mettere in crisi anche gli accordi di Schengen sulla libera circolazione infra-europea, violandone proprio l’essenza, pur con la foglia di fico della concessione di deroghe. È il risultato di una situazione in cui gli Stati nazionali non hanno più la piena sovranità, ma l’Unione europea è ben lontana da averla. E la causa profonda è sempre la stessa: la mancanza di una reale dimensione politica per l’Europa, la mancanza di una vera unione federale.
Usciti dalla semplice fase del Mercato comune, la pretesa di imporre nuove regole, senza una reale unione politica, democraticamente rappresentativa e responsabile verso gli elettori, è a perenne rischio di essere percepita come illegittima. E così, un po’ in tutta Europa, stanno emergendo voci sempre più forti in favore dell’abbandono dell’Euro, se non addirittura della stessa Unione. Un disastro. Noi europei continentali non siamo affatto come i britannici, non solo e non tanto perché non siamo un isola (il che pure conta), ma sopratutto perché non ci sentiamo parte di una comunità transoceanica di 450 milioni di uomini di cultura anglosassone (la special relationship), come invece loro per lingua, tradizioni e interessi, si sentono e si sono sempre sentiti.
La Brexit non è affatto un dramma per loro, per noi un’uscita lo sarebbe. I Paesi europei sono davvero troppo piccoli, per tutelare se stessi nel mondo di oggi e questa non è propaganda europeista, è la realtà. Perfino la Germania non potrebbe farlo, fuori dall’Europa tornerebbe un nano politico e se provasse a recuperare indipendenza riarmandosi, si ritroverebbe tutti contro, diventerebbe destabilizzante e, probabilmente, cesserebbe anche di essere un gigante economico. L’Europa ci serve veramente, ma non questa Europa. Se la Ue è perenne teatro di scontri d’interessi nazionali, con la commissione a cercare di smussarli, ma in realtà mediati direttamente dai governi nazionali, è perché manca la solidarietà, una solidarietà europea che non abbiamo saputo costruire, perché abbiamo, da anni, rinunciato a parlare di Patria europea. Un caro amico, un giorno mi ha colpito con una frase: “il problema è che, mentre anche oggi riesco ad immaginare qualcuno che dia la vita gridando viva l’Italia, non riesco ad immaginare chi lo faccia dicendo viva l’Europa”. È vero, è così, manca lo spirito europeo, basti pensare che quei tedeschi così pronti a far affondare la Grecia per un problema di dimensioni assai ridotte, accettarono la follia economica di un cambio uno a uno del Marco tedesco orientale con quello occidentale, perché la solidarietà nazionale tedesca invece ancora c’è.
Occorre un epos europeo per salvare una costruzione europea, di cui, piaccia o no, abbiamo un reale bisogno, una costruzione che non potrà resistere restando così in mezzo al guado e che però non potrà uscirne senza un “sentimento” europeo, un sentimento di appartenenza non troppo dissimile, paradossalmente, a quello di coloro che guardano al passato. E, se solo ci pensiamo, un’epica europea ce l’abbiamo, sono le tante guerre che ci siamo fatti, le invasioni reciproche e dunque, alla fin fine, la storia comune a renderci simili e fratelli. Ma non c’è costruzione burocratica che possa, anche lontanamente, suscitare un briciolo di entusiasmo, solo una visione politica può farlo, un’identità europea della cui esistenza rendere consapevoli i cittadini, perché in realtà già c’è. Chiunque, europeo, abbia girato un po’ l’Europa, non può non essersi reso conto di quanto siamo in fondo simili, una sensazione che non si prova affatto nel resto del mondo, anche occidentale, ci sono i localismi è vero, ma sono appunto solo localismi ed esistono anche dentro le nazioni, Amburgo e Monaco o Brest e Marsiglia, non sono meno diverse tra loro di quanto non siano con Trento o Salerno e così molto raramente, in un albergo, per strada, al ristorante, ci capita di trovare cose che ci sembrino strane, inusuali, mentre altrove nel mondo non è affatto così.
E non dico nulla della grande e comune cultura, che europea lo è da sempre. Però l’Europa, per esistere, deve diventare davvero democratica, come gli Stati nazione, deve raggiungere la dimensione politica, deve diventare federale. Se l’Europa che mi viene presentata mi condanna a non avere nessun peso nelle sue decisioni, o, perfino peggio, ad essere strutturalmente un appartenente di serie b, mi riprendo le mie vecchie bandiere, mi riprendo almeno il mio passato. Così ragionano in molti e non hanno tutti i torti, se continuiamo a proporgli solo una burocrazia pignola e cieca. Non solo un inno e una bandiera europea, ma anche un esercito, una capitale, un governo, un voto, comuni, perché quella bandiera significhi qualcosa.
di Giuseppe Basini