giovedì 15 settembre 2016
È di pochi giorni fa la morte di un’altra donna che aveva deciso di essere libera. È di ieri il suicidio di una giovane donna perseguitata da una moralità criminale per aver avuto un rapporto sessuale.
L’elenco si accresce di vittime innocenti e l’inerzia della prevenzione presenta il suo volto peggiore. Se la Magistratura pensa di moralizzare la vita sociale del Paese con il suo piccolo esercito dissolvente di magistrati, il fallimento è assicurato. Un effetto moltiplicatore del “Sistema Ingiustizia”. Se si pensa di difendere la vita e la serenità delle donne trucidate e torturate da irriducibili persecutori con le donne che siedono nelle istituzioni, l’orrore dei delitti per mano dell’oppressore civilizzato si moltiplicherà senza requie. Un soggiorno su questa terra di milioni di anni, lungo tutto il suo cammino non conduce l’uomo lontano dalla disperazione, perché la regressione e la progressione hanno la stessa origine e la stessa fine. La prima conduce all’impotenza e la seconda alla irragionevolezza. La storia della civiltà dimostra la mancanza di senso. L’estinzione di una cultura ad opera di un’altra cultura, la distruzione dell’uomo ad opera dell’uomo. Le civiltà si distruggono le une con le altre senza possibilità di coesistenza, tanto sul piano collettivo che su quello individuale. L’uomo percorre senza sosta il cammino che va dall’impotenza di fronte a ciò che vede all’irragionevolezza da cui è nato. È il regno della contraddizione e dell’inquietante estraneità di cui parla Freud nei Saggi di psicoanalisi applicata: “Il fascino che esercitano su di noi certi costumi, apparentemente assai lontani dai nostri, il sentimento di estraneità che essi ci suscitano non tengono forse conto che questi costumi sono assai più vicini di quanto sembri alle nostre usanze, di cui essi ci presentano una immagine enigmatica, che richiede di essere descritta?”.
La fobia dell’uguale domina l’agire con parole ed azioni, mentre tutto è diverso, una singolare negligenza dell’aspetto concreto delle cose, ma la linea che separa le diversità in effetti è un cerchio. L’identità finisce per avere il sopravvento e con essa la confusione che riduce ogni differenza. Convivono due modi di intendere il tempo: quello ciclico e quello lineare, vale a dire o ripetizioni o avvenimenti conclusi in se stessi. La maggioranza di un gruppo vive il presente e non si accorge di quali siano i significati della sua cultura, proprio perché li vive, li agisce e se ne lascia agire in forma ovvia, quasi del tutto inconsapevole, senza riuscire quindi a coglierne il messaggio nascosto ma essenziale.
Come sostiene Levi-Strauss “l’ambizione dell’etnografo è quella cioè di risalire sempre alle origini” e ancora “qualsiasi sforzo per comprendere distrugge l’oggetto al quale ci eravamo dedicati, a profitto di un oggetto la cui natura è diversa; esso richiede da parte nostra un nuovo sforzo che annulla a profitto di un terzo, e così di seguito fino a che non accediamo all’unica presenza durevole, che è quella in cui svanisce la distruzione fra il senso e l’assenza di senso: la stessa da cui eravamo partiti”. Il solo rifugio è la contemplazione di ciò che non è lo stesso, del radicalmente altro. Il dialogo reso fin troppo possibile dalla tecnica del linguaggio è sempre lo stesso da sé a sé. La scoperta è il genocidio perpetrato dall’uomo nel tempo e nello spazio e non solo quello tra un popolo e l’altro che pure ha sempre una fine, per poi ricominciare con altri popoli o tra gli stessi popoli, ma quello eterno, ininterrotto tra il genere maschile e quello femminile non sembra avere fine anche là dove si pensa che la civiltà sia migliore. In un certo senso possiamo verificare ciò che Freud chiama “il tormento del lutto”, che intreccia riti ossessivi e temi mitici attorno all’oggetto perduto. L’orrore dell’olocausto di genere viene arricchito dalla inadeguatezza dell’agire dei magistrati. In una valutazione etnografica la categoria dei magistrati potrebbe essere rappresentata, dato il potere assoluto che ogni singolo possiede e la categoria tutta intera, come portatrice dei mali capitali dell’uomo: la superbia, l’indifferenza, l’ipocrisia.
Grossolani errori, disattenzioni imperdonabili, tenace approssimazione, ingiustificata arroganza costituiscono in gran parte il lavoro dei magistrati, senza elencare le condotte rilevanti sul piano penale in ordine ai reati più offensivi per gli utenti del servizio giustizia: concussione, corruzione, abuso di potere, diffamazione, ingiuria, atti persecutori. Dopo l’abolizione della pena di morte avrebbero dovuto assumere con la toga un comportamento più mite, più dubbioso, più votato all’umiltà, un atteggiamento saggio volto a comprendere l’infinita varietà dell’animo umano conscio ed inconscio senza pregiudizi. Quando il condannato conosce la morte non può più svelare la propria innocenza. Diversamente, passando la vita in carcere può capitare di dimostrare la propria innocenza ed allora sarebbe intelligente cancellare la superbia e l’arroganza.
È vero che sovente il magistrato apre il fascicolo e si trova alla prese con un mondo in cui tutto gli è estraneo e spesso ostile, venendo da un ambiente dove allignano l’onestà e la lealtà scritte nel battesimo ricevuto, ma proprio per questo il suo io migliore dovrebbe invitarlo a negare ogni forma di superbia, dovendo giudicare per la responsabilità della funzione e per la vocazione del suo compito e della sua missione, dovendo anche piegarsi con triste consapevolezza al marchio dell’impotenza e della rassegnazione. Una assenza totale di quella umiltà colta, di quella conferma di dichiararsi vassallo di quelli che l’hanno preceduto con la lode, di respingere nell’oblio quelle dichiarazioni palesemente errate, che sono solo la vergogna di non essere all’altezza del compito. L’arroganza nasconde l’incapacità di accettare l’altra verità, quella che non può essere esternata, che deve restare celata al volgo e all’inclito, quella narrata mirabilmente da Pirandello, che non hanno letto o non hanno capito e che non può essere detta. Una pedagogia deleteria, nociva per l’insegnamento e l’educazione dei giovani che non imparano a muoversi, a parlare, a conquistare coscienza di sé e autonomia, a ricordare in positivo e ad essere felici.
All’esame per accedere alla carriera in magistratura dovrebbero portare come testo “L’Emilio” di Jean Jacques Rousseau (1762), solo quale illustre precedente di come si dovrebbe essere e non si è. Un insulto al genere umano sia nei confronti di coloro che sono parti nei processi e nelle cause e sia di coloro che non lo sono, ma ne subiscono gli effetti collaterali e ne acquisiscono il modello di comportamento nel quotidiano. Il totem del rispetto della legge nella applicazione del suo fallibile interprete e l’isteria del comportamento conseguente altro non sono che proiezioni della categoria dei magistrati per difendere la stessa e nascondere i sintomi di una malattia refrattaria a interpretazioni unificanti.
di Carlo Priolo