La democrazia dei... mediocri

sabato 6 agosto 2016


Il sangue di innocenti, di gente pacifica, di bambini in ogni luogo della Terra segna la fine di ogni convivenza, altera le abitudini di vita, genera un dolore incancellabile per i sopravvissuti. Un fondato timore per la propria vita e per quella dei propri cari, come pure per i propri concittadini destinati a subire l’odio dell’altro pur avendo condotto una vita dedicata al tempio del rispetto di ogni essere umano di ogni etnia, di ogni cultura. Il sangue degli innocenti genere rabbia e l’inutile guerra delle accuse e delle reciproche responsabilità di quelli che avrebbero dovuto prevedere ed intervenire alimenta l’odio e i conflitti all’interno dei Paesi vittime del terrorismo. Più grave e fonte di altro odio tra i popoli si accresce quando i chiamati al dibattito pubblico svolgono analisi del fenomeno e discettano sulle cure e sulle prevenzioni da adottare.

Il tema di maggiore ascolto è l’integrazione, l’accoglienza, la condanna ad erigere muri sia fisici che comportamentali. Le solite semplificazioni che pericolosi professionisti del pressappoco sostengono con veemenza, pensando di essere depositari di verità incontrovertibili. I fatti si incaricano puntualmente di smentire questi incauti predicatori di mancate verità, di incerte teorie su fenomeni che sono al centro della storia dell’uomo sulla Terra. Una delle deduzioni più ricorrente è quella della integrazione ed ancora dell’integrazione incompleta e gestita erroneamente. Le seconde e terze generazioni di immigrati che sono nati sul territorio del Paese che ha accolto i loro genitori, quelli che parlano correttamente la lingua del territorio dove sono nati, quelli che hanno svolto un ottimo percorso di studio e di lavoro sono in gran parte quelli che commettono gli atti terroristici più feroci contro le genti che li hanno accolti e donando loro le offerte che lo Stato ha deciso di destinare ai fratelli che sono venuti da altri Paesi.

Sfugge a questi precari analisti che uno dei punti fermi dell’antropologia culturale è proprio la globalità del modello culturale, intendendo per modello l’insieme complesso di costumi, tecniche, valori, arte, linguaggio, storia, sentimenti, credenze che non tanto si sommano quanto si intersecano, interagiscono fra loro formando uno strettissimo tessuto connettivo interdipendente. È questo che viene chiamato cultura di un popolo, di una etnia ed in cui neanche un filo può essere strappato o cambiato senza che tutto il disegno si ricomponga a formare nuovamente una trama, un tessuto, cioè un modello culturale. Ed è altrettanto impossibile che un individuo, appartenente ad un determinato modello culturale di riferimento ovunque si trovi, avendone assorbito i significati, i valori, i costumi possa vivere senza usarli o negandone i contenuti. La cultura antropologica è uno strumento biologico perché è il prodotto dell’attività encefalica, senza la quale la specie umana non avrebbe potuto sopravvivere. L’uomo non si accorge di usarla e quindi l’assume come sua natura al punto da non riconoscerla e da non poterla pensare in forme diverse. Vive i significati della sua cultura, li agisce e se ne lascia agire in forma ovvia, quasi del tutto inconsapevole, senza riuscire quindi a coglierne il messaggio nascosto, ma essenziale.

Ma ciò che esiste sempre e soprattutto è un’istituzione, un potere, che connette tutte queste manifestazioni e queste sono un sistema, le cui coordinate, varie e diverse al loro interno, sono identiche nella sacralità di ogni potere laico o religioso che sia ed indipendentemente dalle diverse fenomenologie storiche, culturali, etniche. L’ambito della sacralità, infiltrata in tutti gli aspetti della vita della società, tessuto connettivo di tutti i tratti di una cultura, è, quindi, pesantemente coercitiva su tutti gli individui. Quello che viene introiettato dall’individuo fin dai primi anni di vita, attraverso il processo di inculturazione, appare naturale e non viene messo in discussione. L’individuo assorbe il tessuto significativo e profondamente interconnesso della propria cultura non attraverso una pedagogia diretta, ma attraverso l’aria stessa che respira e i messaggi sono silenziosi e nascosti, ma ininterrotti. Un esempio eloquente sono gli ebrei e la loro cultura antropologica che si rinnova nel tempo e nello spazio, di generazione in generazione. Gli ebrei abitano in ogni luogo, vivono in Paesi con diverse tradizioni e culture, ma le costanti del loro modello culturale sono evidenti perché la cultura ebraica si identifica e forma un tutt’uno con la religione, ma anche perché tutta la sua storia, il presente e forse il futuro è fondato sul suo rapporto con Dio, è legato indissolubilmente alla fedeltà al Dio. Così esiste un modello culturale, molto variegato al suo interno, dei popoli musulmani che è caratterizzato da un tratto fondamentale con la religione, con i sacri testi che sono trasmessi ai credenti da mediatori religiosi, che hanno il potere di cementare e diffondere il modello culturale secondo la loro interpretazione delle sacre scritture.

Altro pericoloso strumento di misura di cui si servono per intervenire in ogni dove i principi del pressappoco, nell’Era del villaggio globale, è la democrazia. La democrazia sarebbe l’unità di misura per far decidere a quella vasta etnia di universali comunicatori quali Paesi siano democratici e quali non lo siano e all’interno dei Paesi, dove loro decido che esistano forme di democrazia, quali siano le forze democratiche e quali non lo siano, quali siano i governi democratici e quali non lo siano o non lo siano più dopo essere stati formati. Anche uno sprovveduto capisce bene che l’incerto e fallibile strumento di misura adottato da questi personaggi ubiquitari, con alto grado di natalità in ogni dove, possono mettere in pericolo la stessa democrazia che consiste in un processo in continua evoluzione e che nasce e si sviluppa nei territori dopo fasi e passaggi storici a volte cruenti e non può essere importata da contesti del tutto dissimili.


di Carlo Priolo