Un aforisma, un commento

sabato 6 agosto 2016


“La massa è come una coda sull’autostrada: chiunque vorrebbe evitare di farne parte e, se vi si trova, desidera uscirne al più presto”.

Società di massa, cultura di massa, democrazia di massa, produzione di massa, comunicazioni di massa, uomo-massa sono alcune espressioni, usate in vari contesti, nelle quali il termine “massa” è centrale pur non essendo mai stato definito conclusivamente. Naturalmente non è questa la sede per una rassegna dei vari significati che sono stati attribuiti a questo concetto. Basti osservare che, in Joseph de Maistre come in Marx, in Nietzsche come in Ortega y Gasset e molti altri, la massa viene interpretata come un insieme sociale indistinto, che vive di quantità piuttosto che di qualità o che, al più, costituisce una sorta di stadio preparatorio ad altre configurazioni sociali, come le corporazioni o le classi. Inoltre, nella massa si annida, quasi in ogni definizione, qualcosa di minaccioso e di violento. Freud parla persino della massa come retaggio dell’“orda primordiale”. Dai primi decenni del secolo scorso, poi, la massa è stata oggetto di analisi e dispute legate alla ricorrente propensione delle masse a seguire un capo, identificandosi con esso così come le grandi dittature hanno ampiamente mostrato.

Di fatto, però, vi sono altri termini che in qualche misura si riferiscono alla stessa fenomenologia o a parte di essa: il popolo, per esempio, ma anche la folla, nella versione di Gustave Le Bon e Gabriel Tarde. Oggi, nel linguaggio giornalistico, politico ma anche sociologico, la parola in questione si sta eclissando presumibilmente per evitare, col suo uso, l’allusione dispregiativa che ha accumulato in passato. Rimane però, come abbiamo mostrato con l’elenco citato all’inizio, il suo impiego indiretto che intende indicare quello che, in fondo, è il denominatore comune di tutte le definizioni, ossia il carattere indistinto della massa di cui l’uomo-massa è il membro generico. Indistinto ma, a differenza delle masse ottocentesche, ormai emancipato, attraverso la democrazia liberale e i successi dell’Era industriale, dalla povertà e dalla schiavitù nonché destinatario di costanti attenzioni da parte del potere politico alla perenne ricerca di consenso elettorale. Cosicché gli uomini medi, come osserva Ortega y Gasset, “poiché non vedono nei vantaggi della civiltà una scoperta e una costruzione prodigiosa, che soltanto si possono mantenere a costo di grandi sforzi e cautele, credono che la propria funzione si riduca a esigerli perentoriamente, come se fossero diritti nativi”.

La massa, dunque, non coincide più, o coincide ancora in misura modesta, con le “masse lavoratrici” subalterne e sfruttate del linguaggio togliattiano perché essa ha raggiunto, e non certo grazie al comunismo, un livello di tutela e di benessere notevole, ancorché percepito come dato e ovvio mentre è il risultato delle idee, di uomini e di movimenti che hanno saputo combinare la libera iniziativa dei singoli con il bene comune. La massa contemporanea, nel mondo occidentale, è una dimensione che passa attraverso ceti e classi perché si nutre di senso comune, di stereotipi di varia indole, di elementi simbolici per mezzo dei quali illudersi di “personalizzare” le cose possedute e, ovviamente, di una larghissima dotazione di beni tecnologici identici perché distribuiti, appunto, massivamente. La massa contemporanea non necessariamente esprime una “opinione pubblica” omogenea, se non, tendenzialmente, all’interno delle varie categorie sociali delle quali l’associazionismo costituisce il megafono e l’organo di pressione sul potere politico.

La massa attuale, insomma, è costituita da individui che cercano di divenire protagonisti (cioè, come si dice, di “emergere” o di “sfondare” il muro dell’indistinzione), ma adottando tutti quanti le stesse strategie di valutazione, di consumo e di esibizione di ciò che possiedono finendo, quindi, per apparire come indistinti. Qualcosa di “massivo”, che si basa sull’imitazione, esiste ovviamente in tutti gli esseri umani perché una individualità radicale è, anche sotto il solo profilo statistico, impossibile. È però sicuro che molti di noi, per usare un’altra espressione di Ortega y Gasset, si sentono a “proprio agio” esattamente quando raggiungono il massimo grado di omologazione sociale, grazie al quale ognuno si sente soggettivamente diverso ma tutti appaiono oggettivamente uguali. Potremmo allora dire che il liberalismo deve ora affrontare una “seconda fase” orientata a diffondere l’idea principe su cui esso si fonda, la libertà, su un fronte nuovo: non più solo “libertà da” ma come fulcro della diversità e della razionalità critica che potenzialmente esiste in ogni individuo, che questo faccia massa oppure no.


di Massimo Negrotti