Se questa è “Destra”

venerdì 5 agosto 2016


Claudio Romiti ha letto il mio articolo “Marina Berlusconi: una voce nella notte” ed è trasecolato. Me ne dolgo. Ma non mi schiodo di un passo dalle considerazioni che ho riversato in quello scritto. Le confermo anche perché, di là da alcuni impropri accostamenti, le argomentazioni presentate da Romiti a confutazione non mi hanno convinto. Le parole sono importanti, possono essere pietre per cui bisogna usarle con saggezza perché, come insegna il mitico Giovanni Sartori, esse “sono gli occhiali e in parte anche gli occhi di ciò che pensiamo”.

La mia personale idea di liberalismo si riassume nella parole di Luigi Einaudi che lo definiva: “Quella politica che concepisce l’uomo come fine… e se l’uomo non è un mezzo ma è il fine, si deve fare tutto ciò che porta al perfezionamento dell’uomo”. Possiamo dire in coscienza che, a distanza di un quarto di secolo dal giorno in cui ci siamo sbarazzati del fantasma del comunismo, le cose siano andate nella direzione indicata da Luigi Einaudi? La mia risposta è un no secco. Lo deduco dall’analisi puntuale dei dati sulla condizione complessiva della nostra società, dal numero dei poveri assoluti e relativi che sono cresciuti a dismisura, dalla pressoché sistematica distruzione dei ceti medi produttivi tradizionali, oltre che dall’osservazione empirica della quotidianità. Neanche per un istante ho pensato che tutte le colpe fossero ascrivibili allo sviluppo dell’economia di mercato o alla filosofia del liberismo ma alla sua versione degenerata, che Giulio Tremonti chiama “mercatismo”, senz’altro sì.

Se il mercato resta il mezzo attraverso il quale migliorare complessivamente la condizione umana ci sto, ma se il mercato viene eretto a divinità inviolabile di un feticismo da ventunesimo secolo, mi schiero dall’altra parte. Che non è, come sospetta Romiti, la sinistra marxista. C’è più pensiero di destra di quanto si possa pensare nel dire a chiare lettere che un sistema nel quale l’economia finanziaria non sia al servizio pieno dell’economia reale, ma ne divenga una variabile indipendente e perciò incontrollabile, non può funzionare e prima o dopo si finirà con l’andare a sbattere.

Ammettiamolo, ci siamo cascati tutti nel credere all’utopia liberista. Ci siamo fatti abbagliare dal luccichio della parte dorata della medaglia. Nel lontano 1995 venne dagli “States” Edward Luttwak a spiegarci cosa fosse il turbo-capitalismo. Avremmo dovuto considerare con maggiore attenzione i “danni collaterali” che un’accelerata contrazione dei cicli di vita dell’impresa avrebbe generato sugli equilibri del sistema sociale. Quando Luttwak dichiarava testualmente: “Chiunque produce è una persona inutile o diventerà inutile domani mattina con la computerizzazione”, piuttosto che applaudirlo a scena aperta avremmo dovuto porci qualche domanda. Non è pensabile che a un disperato che ha perso il lavoro perché la sua azienda è stata delocalizzata e non sa come sfamare i figli o come pagarsi un tetto sotto il quale stare, si dica: “È il mercato, bellezza!”. Lo Stato deve esserci e deve servire da regolatore per correggere e sperabilmente prevenire pericolose distorsioni dell’ordine sociale. E questo ruolo lo rivendico da destra, perché non ho alcuna intenzione di lasciare alla sinistra campo libero per farsi paladina della correzione degli squilibri nella redistribuzione del reddito.

La ricetta di Romiti è “meno tasse e meno Stato”. E chi dice il contrario, ma bisogna mettersi d’accordo sul cosa ci fa il privato delle risorse che trattiene. Le reinveste nella produzione sul territorio nazionale? Allora ponti d’oro a tutti i possibili incentivi e privilegi. Ma se quei danari sottratti alla redistribuzione sociale il privato li sposta dalla produzione alla rendita o li utilizza per trasferirsi da un’altra parte del mondo a fare affari, non va bene. Se per qualcuno l’imprenditore che chiude l’azienda in Italia mettendo sul lastrico una comunità di lavoratori per andare a produrre in un Paese dove il costo del lavoro è niente perché si utilizza manodopera in condizioni di semi-schiavitù è uno ganzo, per me invece è solo un gran figlio di buona donna. E poi, diamoci un taglio con la difesa di principio di una classe imprenditoriale italiana che è liberista a corrente alterna. Aveva ragione il compianto Francesco Cossiga quando accusava certi imprenditori nostrani di essere addestrati a socializzare le perdite ed a privatizzare i profitti. E a costoro vorremmo fare l’ennesimo piacere togliendo ancora regole a cui dover sottostare? Comunque sia, Romiti ha detto la sua ed io ho potuto fare altrettanto: questo è lo spirito liberale de “L’Opinione”. D’accordo, Claudio?


di Cristofaro Sola