mercoledì 20 luglio 2016
Oggi si guarda al terrorismo. È giusto che sia così perché è un problema reale e non si può fingere che non esista. Tuttavia, parlarne tanto distoglie lo sguardo dal flusso costante di immigrati clandestini che ci passa sotto il naso.
Doveva essere un’emergenza, è diventata la normalità. Non fa più notizia. È come un rubinetto rotto. Gocciola senza sosta, lo guardi e pensi: è poca roba. Fino a quando non ti ritrovi la casa allagata. Allora non basterà l’idraulico per risolvere il problema. Dicono i “buonisti” al potere: cosa saranno mai, in un anno, 200mila poveri cristi che approdano in Italia? Siamo in 60 milioni, possiamo comodamente ospitarli. Dire il contrario è da razzisti xenofobi. Ma gli anni passano, le migliaia diventano milioni e un bel giorno si scoprirà che il nostro Paese non è più nostro ma di altri. Ci chiederemo come sia potuto accadere, ma sarà troppo tardi per riparare ciò che è stato distrutto. Questo processo degenerativo ha un nome, si chiama sostituzione etnica. La storia è piena di esempi di trasformazioni di territori per effetto del consolidamento di grandi ondate migratorie. Non è questione di mesi o di anni. L’arco di evoluzione di un fenomeno di tale portata può richiedere decenni, ma giungerà inesorabilmente a compimento. Potrebbe non riguardare la nostra generazione ma quelle che ci succederanno. Se non si fa nulla, accadrà. E con quale diritto ipotechiamo il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti? Patria è una parola desueta, bandita dal lessico familiare della sinistra “politicamente corretta”. Eppure fa capolino nella nostra Carta costituzionale, quella che per alcuni sarebbe la più bella del mondo. Patria deriva dal latino “Patres”, che significa padri. Patria, dunque, è la terra dei padri, il luogo dove riposano le spoglie di chi ci ha preceduto. È anche ciò che abbiamo ricevuto in eredità da trasmettere a chi verrà dopo. Chi ci ha preceduto ha costruito ciò che siamo nel luogo dove siamo. E noi cosa facciamo? Lo buttiamo via, lo regaliamo a chiunque voglia prenderselo in nome di un’utopia per la quale tutto appartiene a tutti, la tradizione è una perversione dello spirito e il diritto alla proprietà un abominio. Ogni individuo ha il diritto di disporre di sé. Ha perfino il diritto di suicidarsi, se non trova niente di meglio da fare. Ma non ha il diritto di trascinare nell’irrimediabilità del suo gesto tutto quanto gli sta intorno e che non appartiene solo a lui.
L’identità, la memoria condivisa, la storia, la lingua e anche il sentimento religioso, in una parola: la cultura di un popolo, costituiscono il bene comune che non può essere alienato o distrutto per volontà di una parte, o di un singolo. I buonisti si parano dietro le interpretazioni massimaliste ed estremizzanti del messaggio evangelico per dire che siamo tutti fratelli e come tali dobbiamo condividere ogni cosa e non ci debbono essere barriere o impedimenti che ostacolino questa condivisione. Se fosse vero sareste dei veri caini a negare a vostro fratello Abele venuto dal mare il piacere di prendere il vostro posto nel letto, accanto a vostra moglie. Se siamo tutti uguali e non esistono più differenze, il pronome possessivo “mio” non ha senso se non nella dimensione diabolica del male, come forma della negazione assoluta del Bene.
È dunque questa l’Italia? Governata da nemici che odiano ciò che sono e che non vorrebbero essere? Rappresentata da persone, come la signora Laura Boldrini, che senza pudore dicono: “Mai ricetta più sbagliata di quella di chi dice che bisogna prima pensare ai nostri concittadini”. Si può essere contrari ad accogliere i flussi migratori per ragioni economiche, di sicurezza sociale o di ordine pubblico. Si può dire pure: non li vogliamo perché non c’è di che sfamare i nostri, figurarsi gli altri. Ma per orgoglio e per amore verso il proprio Paese si può sfidare il disgusto e l’odio dei sacerdoti e delle vestali dell’accoglienza dicendo: non è qui che devono stare gli invasori perché questa è la nostra terra. La terra degli italiani.
di Cristofaro Sola