L'iceberg di Renzi

sabato 16 luglio 2016


Quando Renzi sostiene che merito della sua riforma costituzionale è realizzare (qualche) risparmio di bilancio, dimentica – a parte i risvolti “punitivi” e demagogici del discorso - il problema della dimensione del debito pubblico dovuto, per il 99% a ben diverse ragioni, sulle quali i “costi della politica” (quelli palesi, poi!) c’entrano poco.

Gli è che il costo è ascrivibile prevalentemente a due ragioni: l’ideologia dello “Stato sociale” nella versione nazionale che è quella, come scriveva Fortunato, dell’appartenenza degli uffici agli impiegati; e dall’altro, per l’appunto, il potere burocratico, enormemente cresciuto, e che non è riducibile ridimensionando il numero dei senatori o con altri placebo istituzionali simili.

Cosa di cui un secolo e passa fa, molti intellettuali italiani (e non) erano perfettamente consapevoli. Il potere burocratico aveva (ed ha) ruolo, funzione, interessi distinti da quello politico. Sosteneva sempre Fortunato “è tempo di liberare l’Amministrazione, non più intenta al servizio, che è il fine, ma solo all’organico, che è il mezzo, dallo stato di parossismo in cui si dibatte… scongiurando il pericolo non mai prima temuto, e che non è punto immaginario, di avere, un giorno, i pubblici poteri a disposizione de’ funzionari contro l’interesse della collettività”.

Negli stessi anni Santangelo Spoto scriveva che “la Burocrazia come «potere proprio agli uffici» è un male grave per la giustizia e la rettitudine amministrativa, e compromette la vita del governo parlamentare, così, mi è parso utile fare del male la eziologia e la terapeutica” e notava che proprio il governo parlamentare aveva finito per sviluppare la burocrazia, non avendo l’autorità della vecchia monarchia assoluta “sotto le aristocrazie o le monarchie assolute il «potere degli uffici» non poteva affermarsi, perché l’autorità del Principe, era in modo assoluto, la sola imperante, la sola preposta alla pubblica amministrazione. È quindi necessario ammettere che solo allorquando l’autorità del Principe si venne dividendo o sminuzzando, esso poté avere la possibilità di esistere”. Onde alla fin fine aveva usurato parte dei poteri sovrani: “la Burocrazia in quanto appunto s’è affermata come «potere degli uffici» è riuscita a sottrarre ora in tutto ora in parte, allo Stato l’autorità sua”.

Affermazioni simili faceva Max Weber “i politici devono offrire un contrappeso alla burocrazia. Ma a ciò si oppone l’interesse di potere proprio delle istanze dirigenti di una burocrazia pura, le quali tenderanno sempre verso una libertà il più possibile esente da controlli”. Un grande giurista come il francese Maurice Hauriou riteneva che “sul piano dell’azione di governo il potere minoritario delle istituzioni e del loro personale funzionarizzato detiene il primo posto, mentre il potere maggioritario del personale politico, malgrado la di essa qualificazione di sovranità nazionale, non occupa che il secondo posto”.

Anche Gramsci sosteneva che la debolezza del liberalismo “è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente, che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta”. Se quindi da più di un secolo si conoscono limiti, incompatibilità e problemi dello Stato democratico moderno, in larga parte conseguenti all’elefantiasi burocratica e alla sua invadenza, pretendere di curare il male con la riduzione di qualche decina o centinaia di milioni di euro risparmiati sugli emolumenti della classe politica è come pretendere di svuotare il mare con un secchiello.

C’è da chiedersi il perché il nostro Premier v’insista tanto: ma al di là degli intenti di propaganda, una ragione – tra le diverse possibili e probabilmente concorrenti – emerge. Il PD è, ormai da decenni, nelle sue varie trasformazioni (spesso più nominali che reali) il partito dell’ancien régime, dell’alleanza tra post- comunisti e sinistra (già) democristiana; ossia del baricentro della prima repubblica, privata dalla crisi degli anni ’90 degli altri partiti (e correnti) del CLN.

In quanto tale (aveva ed) ha incrementato, selezionato, gratificato parte della società italiana. Trovandole per lo più, come dicono gli spagnoli, un lugar en el presupuesto, cioè una nicchia nel bilancio pubblico (non solo dello Stato ma anche degli enti locali). E non soltanto di personale amministrativo si tratta; tra i tax-consommers oltre alla sterminata platea degli impiegati, c’è una – forse pari – moltitudine di “assistiti” dello Stato sociale: dai cineasti ai giornali (meglio se amici) dai no-profit ai percettori di false pensioni (e così via).

Rinunciare a questo sarebbe non solo un cattivo affare elettorale, ma anche intaccare il controllo sociale che, tramite quello, ogni potere riesce ad esercitare, e quello catto-comunista in particolare. È per questo che dell’iceberg del debito pubblico si annuncia solo la riduzione della punta che emerge: quella che si vede. L’altra sommersa – che è quasi tutto – da tale zelo apparente è solo protetta ed occultata.


di Teodoro Klitsche de la Grange