Cursus Honorum

mercoledì 22 giugno 2016


Com’è noto i Romani seguivano una regola non scritta ma costantemente osservata, per cui ogni cittadino che aspirasse ad ottenere una carica pubblica doveva seguire il cursus honorum cioè essere eletto a cariche pubbliche in ordine progressivo, dalle meno impegnative (questore) alle più importanti (console). Le deroghe erano rarissime: anche Giulio Cesare e Scipione l’africano “fecero la gavetta” prima di arrivare al consolato: per Scipione l’eccezione fu, in due casi, d’esser eletto alla carica malgrado più giovane dell’età prescritta. La ragione di tale percorso di “carriera” è evidente: assicurare che gli eletti avessero sia l’esperienza che la capacità di gestire gli affari pubblici. Un edile – magistrato competente per gli affari interni, come la manutenzione degli edifici pubblici, l’organizzazione delle feste cittadine, l’ordine pubblico – che avesse curato i templi romani con la premura (e i risultati) con cui i Sindaci di Roma tengono la metropolitana, ben difficilmente avrebbe potuto ragionevolmente aspirare alla Pretura o al Consolato. Molto probabilmente sarebbe stato meglio per lui ritirarsi a vita privata, come Cincinnato, ma per tutt’altre ragioni. E di tali prassi i romani erano così convinti e soddisfatti, che anche cambiando la costituzione da Repubblica a Impero, fu mantenuta per almeno un paio di secoli dopo Augusto; il quale, in un impeto di giovanilismo, si limitò ad abbassare i requisiti di età per accedere alle magistrature. Opposta è l’opinione che va per la maggiore oggi in Italia, forse più sulla stampa, televisioni e internet che nelle convinzioni diffuse. Il fatto di essere esperti e capaci nella gestione degli affari pubblici è ritenuto secondario e spesso controproducente. È almeno un ventennio che si vogliono governanti provenienti dalla “società civile”; e per far parte di tale eletta compagnia, è requisito essenziale non essersi occupati (direttamente) di politica e soprattutto di non aver esercitato cariche pubbliche “politiche”. Abbiamo avuto Presidenti della Repubblica e del Consiglio dei Ministri mai eletti neppure in un consiglio scolastico; altri che avevano amministrato enti pubblici di carattere per lo più economico e avevano punta o poca esperienza di cariche e affari politici; altri erano solo figure di secondo o terzo piano, sfuggiti al vaglio di tangentopoli non tanto per le loro virtù morali, quanto per la scarsa rilevanza loro e degli incarichi ricoperti. Che poi il risultato (anche) di tutto ciò sia stato che l’Italia è peggiorata economicamente, la disoccupazione è alle stelle, il debito pubblico non arretra come purtroppo fa il reddito individuale (e il Pil), la considerazione internazionale della “seconda” repubblica è minore di quella – non eccelsa – della prima è anche conseguenza di tale convinzione, e soprattutto della pratica della medesima. Di cui pertanto ci si deve domandare se ha un fondamento razionale o, almeno ragionevole. All’uopo ci soccorre Croce.

Questi in un notissimo passo di “Etica e politica”, parlando dell’onestà del politico, “ideale che canta nell’animo di tutti gli imbecilli” enunciava criteri validi anche per giudicare di quest’altro “ideale”, e scriveva “mentre nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatorie, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura”; onde si chiedeva cos’è l’onesta politica e rispondeva “L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze”.

Ciò che Croce affermava dell’onestà si applica in relazione all’esperienza ed alla capacità: infatti il filosofo non sosteneva che bisogna essere disonesti, ma che l’essenziale è essere capaci di conseguire risultati positivi; e per farlo è determinante e spesso decisivo avere esperienza e capacità politiche.

E l’una e l’altra si conseguono (e si valutano) esercitandole e in particolare ricoprendo cariche pubbliche, meglio se politiche. Tutt’altra la convinzione diffusa nell’Italia di oggi; non solo non averlo fatto è un titolo di merito, ma quando ci si presenta alle elezioni non si bada a capacità ed esperienza ma all’immagine e alla simpatia. Se si è eletti, oltre a ciò, quel che si rileva non sono le attitudini politiche, ma, ad esempio, il “genere” sessuale. Essere donna o gay appare un titolo superiore ad essere stato ministro o sindaco di una città importante.

D’altra parte se il pubblico va così male, una delle ragioni è proprio questa: l’eleggere personaggi senza esperienza e capacità, scelti perché simpatici, nuovi o diversi. Con criteri empatici e non politici. E se dopo qualche anno, o anche prima, si capisce la loro totale inidoneità alle funzioni conseguite, gli stessi possono anche rispondere che in definitiva non è colpa loro: sono stati eletti perché simpatici o diversi, non perché capaci ed esperti. Che poi questi gradevoli eletti finiscano per lo più ad essere le marionette di altri e in particolare della burocrazia che dovrebbero dirigere e controllare è anch’essa una conseguenza, meno vistosa e notata, dell’inesperienza (e/o dell’incapacità) di cui sono colmi. Perché in uno Stato burocratico, se il governante non ha quelle doti finisce per essere irretito e sottomesso al “sapere specializzato” del proprio “aiutantato” burocratico che invece di servire, padroneggia.

Per l’una e l’altra ragione è preferibile seguire l’esempio e la saggezza dei romani. La repubblica dei quali durò circa cinque secoli ed altrettanti, in occidente, l’impero. La nostra, dopo settant’anni, fa acqua da tutte le parti.


di Teodoro Klitsche de la Grange