martedì 14 giugno 2016
La sinistra benpensante attacca Alessandro Sallusti per aver voluto omaggiare i lettori del suo giornale, lo scorso sabato, di un’edizione del Mein Kampf di Adolf Hitler.
Prendersela per la pubblicazione di un libro indesiderato è stupido. E pericoloso. Perché non è nascondendo le idee, anche le più ripugnanti, che si serve la causa della libertà. La conoscenza, il sapere, rendono l’individuo migliore e consapevole. Viceversa, è tipico dei regimi autoritari e paternalisti ritenere che, non essendo l’opinione pubblica pronta ad affrontare prove impegnative, sia più salutare mantenerla in una condizione di beata ignoranza. Si vuole combattere davvero l’onda montante dell’antisemitismo? Allora si dicano le cose giuste sui rapporti con il mondo islamico e con la sue ramificazioni integraliste piuttosto che accanirsi su un libro datato. Già, perché se si ha la pazienza di leggerlo si resterà non poco delusi. Il senso del Mein Kampf è focalizzato nel tentativo di interpretare il nazionalsocialismo come “gnosi della razza”, oltre la dimensione della politica. Come alcuni studiosi attenti rilevano, nel Mein Kampf ricorre il miraggio di una parousia millenaristica, una dottrina della salvezza di cui Hitler si autoproclama portatore e profeta. La sua pretesa è insieme provvidenziale ed escatologica. È lotta tra il Bene e il Male, tra la Herrenrasse, la razza superiore, e l’Ebreo simbolo di disgregazione sociale e di degradazione razziale.
La “lotta del primo tempo” di cui si parla nel libro, si compie sul terreno inquinato della società borghese, corrotta e decadente, infiltrata dal morbo letale del bolscevismo. Il Mein Kampf è “romanzo di formazione” perché dà conto del processo di autoedificazione del predestinato, il capo del Reich millenario, attraverso una “Bildung” fatta di Conoscenza e di sofferenza. L’idea è funzione della visione: il nazismo è profezia in atto. Tuttavia, non basta leggere questo libello per coglierne il messaggio aberrante. Questo è il limite dell’operazione editoriale proposta da Sallusti. Attribuire al Mein Kampf una funzione costitutiva di una visione del mondo è un errore perché il nazismo non fu un fungo velenoso spuntato all’improvviso nel bel mezzo di un lussureggiante prato di margherite. Lungi dall’essere la radice dell’albero del male, il Mein Kampf ne fu solo il frutto letale. Proporne la lettura staccandola dal contesto rischia di innescare un conveniente revisionismo assolutorio di tutto ciò che in Germania preparò il terreno all’avvento del millenarismo hitleriano. La scadente prosa del Mein Kampf, infatti, pesca a piene mani dalle opere dei mistici medioevali, da Gioacchino da Fiore a Maister Eckhart, dalle idee di Lutero, il padre della Riforma, alla tradizione dei pensatori tardo-romantici tedeschi. E non solo. Il testo è tributario della sterminata produzione letteraria dei circoli Völkisch della “Rivoluzione Conservatrice”, attivi dai primi del Novecento, delle tesi dei Wandervögel, i gruppi giovanili proto-ambientalisti che predicavano la rigenerazione della Germania post-bellica ad opera dei Männerbünde, gli “ordini virili” fondati sul culto dell’amicizia e del cameratismo, delle azioni violente dei Corpi Franchi. Ma, soprattutto, il Mein Kampf è erede diretto di un altro scritto fondamentale nell’orizzonte nazionalsocialista. Si tratta dei “Dialoghi tra Hitler e me. Il Bolscevismo da Mosè a Lenin” di Dietrich Eckart. C’è da sospettare che se l’autore non fosse morto dopo un periodo di carcerazione dovuto alla partecipazione al fallito putsch hitleriano del 1923, di certo sarebbe stato una stella di prima grandezza nel firmamento nazionalsocialista.
Perciò se l’operazione editoriale è mirata a “conoscere per non ripetere”, è indispensabile che si comprenda cosa ci sia stato prima e intorno al “fenomeno Mein Kampf”, per evitare che processi culturali complessi si involvano fino a precipitare nella barbarie. Ieri, come oggi.
di Cristofaro Sola