Marchini e Parisi: le somiglianze

giovedì 19 maggio 2016


Come dicevano le nostre nonne: chi si somiglia, si piglia. Per un’incredibile sequenza di accadimenti politici, la felice massima possiamo applicarla anche al duo Marchini- Parisi, i due campioni che stanno correndo per tagliare il traguardo di primi cittadini. Non ci eravamo accorti qui a Milano. Per tante ragioni.

Vista infatti dai soliti provinciali milanesi, la campagna elettorale di Roma sembrava, lo diciamo al passato, una delle tante kermesse come si dice da noi superficiali, alla romana, cioè nella solita salsa simpaticamente caciarona a base di suddivisioni e riunificazioni, di guerre e paci, a seconda delle ventate del ponentino politico. Un ragionamento per pigrizia o per lontananza, chissà. Ma questa volta, alla superficialità non giudiziosa, è venuta in soccorso la sintesi dell’evento che il nostro Diaconale ha tracciato a proposito delle sua intervista a Marchini. Riassumibile essenzialmente nella speciale, specialissima (e per noi felicissima) scelta di Alfio Marchini di rimanere coi piedi ben piantati per terra nella sua città. Il che sta a indicare che la sua opzione rinuncia ai richiami del politichese nazionale, con appendici di appartenenza nella sua versione di vassallaggio pro bono civitatis, tenendosi invece stretta la missione più autentica di un sindaco: quella di occuparsi dei problemi, grandi e piccoli, della propria città. E di risolverli, of course.

Qualcuno dirà che uno come Alfio non vola alto, che sta troppo terra terra perché timoroso o, quel che è peggio, doppiogiochista nell’impegnarsi col feudatario signore e padrone del potere, senza rendersi conto che le cose stanno da tutt’altra parte nel caso di Marchini, benché qualcuno la tacci come la solita operazione antipartitica. In realtà le apparenze, come sempre, ingannano. Si fa politica e al meglio nella propria città soltanto quando si è capaci di risolverne i problemi, di dare risposte coi fatti e non con le promesse, alle molte situazioni irrisolte, lasciate a metà, dimenticate.

Per esperienza personale, sappiamo quanto poco contino in una campagna amministrativa, anche di una grande città, mettiamo Roma o Milano, gli agganci nazionali politici, le sue ascendenze, financo le discendenze. Certo l’importanza di collegamenti è addirittura ovvia, ma la strumentalità degli stessi diventa un must soprattutto dopo l’elezione a primi cittadini, quando l’intervento superiore è indispensabile ed è pressoché inevitabile armarsi di umiltà e andare col cappello in mano dal Premier di turno. Prima no. Prima, e fa molto bene Marchini, viene l’attento ascolto delle necessità dei romani ed è obbligatoria una trasparente gerarchia di problematiche se si vuole che ne corrispondano altrettanto trasparenti, seppur veloci, realizzazioni. Queste e quelle non hanno una colorazione partitica e i cittadini sono al 99,9 per cento alieni dal mescolare il sacro col profano, dal miscelare le istanze e le emergenze (tutto è emergenziale nella Roma “redux” da Marino e non solo) con le benedizioni dall’alto. Interessa infinitamente di più l’impegno e la fattualità di un sottopasso da sistemare, piuttosto che sbandierare l’appartenenza/sudditanza al detentore del potere nazionale.

Il romanocentrismo di Marchini è condito di eleganza innata, giammai oscurata da nessuna abbagliante Ferrari se è vero, come è vero, che l’abito non fa il monaco, salvo che per i qualunquisti senza idee politiche. Si scopre l’acqua calda nell’insinuare che la scelta di Marchini è di matrice berlusconiana. A parte il fatto che, in sua assenza, la fino ad allora solitaria corsa marchiniana sarebbe precipitata nel bailamme di un centrodestra spezzettato dopo l’irruzione del duo Meloni-Salvini, ma non meno vero è che l’indipendenza di Alfio serve e servirà non solo o non soltanto per la realizzazione di ambizioni legittime, fra cui la restituzione di Roma alla sua “romanità” da Capitale, ma è funzionale ad un disegno politico, ancorché futuribile ma non troppo, che la narrazione di Stefano Parisi sta offrendo a Milano. E non stupisca la romanità di nascita di Parisi, perché, semmai, potrebbe iscriversi nelle magiche curiosità della storia. Molto meno magici sono invece i segni che sta lasciando il marchio della sua candidatura, voluta anche questa dal Cavaliere riuscendo a ricomporre un quadro di alleanze impossibilitato a Roma.

Il punto vero, e che avvicina singolarmente i due candidati, è la romanità di Marchini e la milanesità di Parisi nella misura in cui il termine dell’appartenenza declinato da Parisi si riappropria di temi, parole, programmi, progetti amministrativi tanto strettamente connessi a Milano da tradirne quasi un’ombra dell’antico leghismo bossiano lasciato alle spalle dal “sovranista” Salvini. Un bagaglio, quello d’antan, col suo localismo (campanilismo) sbandierato, a parole, un fare per proprio conto, purché si faccia, e senza bisogno degli altri, soprattutto di “Roma ladrona, la Lega non perdona!”. Ma come sappiamo, erano solo slogan, frasi fatte, manifesti murali, writers pontidiani. La narrazione di Parisi è ben altra. Ne fa aggio una storia manageriale dove promesse come innovazione, tecnologia, modernità da applicare alla propria città, non sono parole, slogan, poster elettorali. Last but not least, i candidati delle due più importanti città italiane stanno iniziando un percorso che da ammnistrativo potrà diventare politico, partendo da analoghe impostazioni, dentro un’area che sembrava orfana, desueta, in piena decadenza. Se avverrà, sarà un gran bene. E non solo per i loro cittadini.


di Paolo Pillitteri