venerdì 22 aprile 2016
Centocinquanta anni fa, dopo grandi avventure sudamericane, il futuro ammiraglio Vittorio Arminjon, sulla nave Magenta, approdò in Giappone e Cina. Per la felicità del ministro Visconti Venosta e per gli afflitti coltivatori di bachi da seta, sotto grave epidemia, concluse il trattato di amicizia con il Sol Levante. Il suo analogo accordo con il Celeste Impero invece si perse nei meandri dei successivi imperi fascista e comunista di Pechino. L’incontro tra l’Arminjon ed il governatore di Kanagawa Noto-no-kami fu un successo, complice il cioccolato bicerin, che conquistò gli yakunin suggellando i rapporti italo-nipponici.
All’epoca l’evento passò in sordina, schiacciato dalla Prima guerra del neonato Regno preoccupato per le sorti della conquista del Veneto. L’Arminjon e Noto-no-kami erano uomini ancien régime e poco avevano a vedere con le missioni gesuitiche dei secoli precedenti. Il primo, savoiardo tutto d’un pezzo, veterano di Crimea, in un primo tempo, deluso dal Re, aveva optato per la cittadinanza francese; francese era nell’anima il primo inviato straordinario a Yokohama, il conte Sallier de la Tour. Francesissimi sono i Charbonnières-les-Bains di Lione, eredi Arminjon, che ancora detengono i documenti della vicenda. L’anziano arzillo e intelligente hatamoto riportava ancora al superstite shogunato feudale di Osaka con tanto di inevitabile spia governativa metsùki. Consumati da tre anni di bombardamenti navali anglo-franco-americo-olandesi, i samurai delle spade lunghe, larghi calzoni di seta, innumerevoli stemmi in bianchi ricami sulle vesti, sarebbero stati spodestati l’anno dopo, dopo 250 anni, dalla famosa rivoluzione (o meglio restaurazione) Meiji. La cordiale visita italiana fu veramente una cioccolata calda apprezzata in inglese e ceralaccata in francese. Così partirono i rapporti Roma-Tokyo. Seguirono, nell’ordine, il Salgari smaccatamente filogiapponese della gesha (sic!) ne “L’eroina di Port Arthur”; due guerre mondiali con medesimi sogni tardo coloniali ed alleanze, malgrado le preferenze cinesi di Ciano; e gli anni pacifisti belli del “Come perdere una guerra e perché”.
Secondo l’ex console a Osaka Vattani, non è mai finito in 150 anni l’oculato shopping nipponico in Occidente, da questo lautamente ripagato. Tra gli esempi delle scuole tedesche o della marina inglese, l’attenzione per l’Italia è ancora miope, limitata ad arte, cucina e Rinascimento, e mai a tecnologia o modernità. Forse è colpa di quel primo passo in bicerin. Non a caso il protagonista del romanzo Doromizu dello stesso Vattani, storia di un italiano inghiottito dal Giappone è un Merisi, come il Caravaggio, star per i nipponici. Che non sanno che l’omonimo di un’altra star, Raffaello Sanzio, cammina tra di loro, cittadino del Sol Levante. È Raffaello Kobayashi, pensionato di guerra nipponico (dal 1992 anche italiano), sommergibilista, che finì di combattere ed abbattere aerei americani a Kobe, a scoppio della bomba atomica già avvenuto. È lui l’uomo di questi 150 anni. Come potrebbero però i giapponesi riconoscere la tecnologia da lui dominata? E riconoscerlo come italiano, lui che deluso come l’Arminjon gettò alle ortiche il suo stesso cognome?
di Giuseppe Mele