giovedì 14 aprile 2016
Nella strage del buonsenso a cui stiamo assistendo svettano i difensori della critica, della libertà di pensiero, che fanno parte, ognuno a titolo diverso, dell’intellighenzia della nostra società. Non parlo soltanto dei vari imbonitori mediatici non-politici (ma pur sempre politicizzati), ma anche di quelli “da bar”, da bottega o, semplicemente, da club e da associazione. Niente come dirsi “filosofo” o “filosofa” pone oggi l’intellettuale al di sopra del chiacchiericcio qualunquista, dell’opinionismo, delle persone informate ma non colte, massa da cui l’intellettuale appena più alfabetizzato della media ci tiene ad elevarsi, arricciando il naso ogni tanto, dandosi quella modestia strategica che tanto basta, finché gli altri ne riconoscono gli indiscutibili meriti. Quando nascono i “dubbi” (che tanto dovrebbero essere cari alle persone intelligenti) sul loro conto, la modestia sparisce.
Il sottoscritto iniziò la sua vita pubblica con l’associazionismo, proseguendo con l’università e finendo, si fa per dire (spero) con l’assistenza e la docenza universitaria presso atenei e centri di ricerca. Ho lavorato e collaborato con ignoranti e colti, con cretini e intelligenti, religiosi e gnostici, atei presunti e convinti salvati dalla Provvidenza, pigri e laboriosi, coraggiosi e vigliacchi, aiutanti stregoni e gente veramente preparata, ma mai mi sarei aspettato, dopo oltre un decennio a “combattere per l’amore del sapere”, sacrificando (lo farei ancora) denaro, sentimenti e vita privata, di tirare le somme in maniera tanto cinica e lapidaria.
La cosa più difficile, riconosco oggi, non è lavorare coi “religiosi” d’oggi (sanfedisti permettendo) e nemmeno con gli ignoranti, ma collaborare con i filosofi, in special modo quelli che si dicono “illuministi”; la maggior parte di loro si è rivelata una pletora di presuntuosi, partigianeschi, pomposi “professorini/e” che mi hanno fatto, finalmente, comprendere perché mai “ci sono più seminari che accademie” nonostante noi siamo nell’Era della scienza e della tecnologia. La risposta è una sola: perché ci sono “loro”.
Non si pensi che questa sia una mia presa di coscienza estemporanea. Tutt’altro, essa è corroborata in anni di “diplomazia” interpersonale e di collaborazione stretta con centinaia di persone preparate, a volte anche colte, ma non dotate di quello che occorre per essere un filosofo: la visione d’insieme. Questi impiegati del catasto falliti, queste sciampiste prestate alla cultura, partono (inconsapevolmente?) dal presupposto che al vertice del loro “lavoro” ci sua l’“io”, il loro Io. Quando uno meno se lo aspetta scatta la tagliola dell’“io”, “mio”, che ne tira fuori la natura vera, segretamente tenuta a bada da falsa modestia e da un mediocre perbenismo. A volte servono occasioni create a dovere, per poterle smascherare prima che sia troppo tardi e che i rapporti siano troppo stretti. Questa loro bipolarità latente non è tanto presente nei “baroni”, nei professori e negli accademici di chiara fama che, dall’alto della loro posizione, non hanno più bisogno di combattere, sicuri del loro status, quanto in coloro che si ostinano per gioco, per passatempo, a fare gli “intellettuali” mentre sono costretti ad altra occupazione. La loro frustrazione è così forte che essi dimenticano, o forse non conoscono, il vero fine della filosofia.
Essi ed esse (le donne sono più inclini a questi difetti caratteriali ed umorali) sono congenitamente incapaci a qualsiasi forma collaborativa che non riconosca a loro ruoli, titoli e riconoscimenti superiori a quelle che sono le loro reali capacità. Si professano, spesso, ardenti democratici (cosa che io non ho mai tenuto a dichiararmi) ma quando si tratta di mettere in discussione il loro pensiero, operato, oppure offuscare una particella della loro pretesa gloria, del loro pensiero, dei loro impianti teoretici domenicali, diventano un incrocio tra Solone e Stalin.
Ma ciò che, a distanza di tempo, mi è più indigesto della loro vomitevole protervia, non è la falsa modestia con cui si pongono, ingannevoli, all’altrui intelletto; nemmeno il modo in cui prendono le distanze dagli incolti (i non laureati) che, poverini, vorrebbero dare un piccolo contributo al mondo della cultura; nemmeno da come pontificano sul loro filosofo di riferimento (che nemmeno il santo protettore); e neanche, lo dico serenamente, da come si battono sull’idea di ragione sopra a quella di fede come se, da questo ragionamento, derivasse veramente tutto il disegno della salvezza umana. No, più di tutto mi resta insopportabile la loro irriconoscenza verso coloro che gli permettono di raggiungere posizioni che gli erano estranee, a causa della loro incapacità pratica a confrontarsi con i risultati.
Solo di recente ho capito la frase del vecchio, grande faraone (se non erro Seti), che si rimproverava di aver protetto i deboli e sfamato gli orfani. Allo stesso modo gli intellettuali inconcludenti, quando vengono aiutati, sostenuti, tenuti conto per progetti di qualsivoglia genere, si rivoltano contro la mano che li ha nutriti, quando acquistano forza, nel seme di quel sentimento d’amicizia che conoscono solo esegeticamente ma che gli è sconosciuto in pratica. L’unica cosa per cui i nostri “intellettuali” sono capaci di lavorare in gruppo sono le cose che non centrano niente con la filosofia e, spesso, con l’intelletto: la raccolta firme, le dichiarazioni politiche, le manifestazioni per i “diritti civili”, ed altre amenità simili, poiché non hanno capito e, probabilmente, non capiranno mai, come queste cose si conquistano.
La filosofia non è morta ma, oggi, è orfana. In compenso ha tante persone che sono candidate a “sposarsela” loro, per parlare pulito.
di Danilo Campanella