giovedì 31 marzo 2016
“L’informazione non è considerata un bene comune, ma uno strumento di potere. Basti pensare a come sono stati trattati nell’ordine Monti, Letta e Renzi: appiattimento a pelle d’orso”. Non è lo sfogo di un politico d’opposizione e neppure di un giornalista emarginato. È l’analisi del genovese Giulio Anselmi, settant’anni, che ha vissuto in prima persona e nei posti più elevati del mondo dell’editoria l’evoluzione del giornalismo e della vita politica e sociale italiana.
Intervistato da Silvia Truzzi per “il Fatto Quotidiano” dopo Giovanni Valentini, Cesare Romiti (presidente onorario di Rcs Media Group) e Ferruccio de Bortoli (ex direttore ed editorialista del “Corriere della Sera”) si sofferma sull’“Era di Stampubblica, quella dei giornali che non contano più”.
Anselmi è stato al “Corriere Mercantile”, a “Stampa Sera”, al “Secolo XIX”, a “Il Mondo”, al “Corriere della Sera”; e ancora, direttore de “Il Messaggero”, dell’Ansa, de “l’Espresso”, del “La Stampa” e per due anni - dal 2012 al 2014 - presidente della Federazione italiana editori giornali (Fieg).
Come mai per Anselmi “il segnale della concentrazione tra testate non può che essere letto come la prova di un declino progressivo”? È l’amarezza di chi ritiene che le aziende editoriali debbano sopravvivere usando tutti gli strumenti che l’economia mette a disposizione. Ma “Il caso Stampa-Repubblica è impressionante perché coinvolge due tra i maggiori quotidiani del Paese. La ragione per la quale tutto questo passa sotto silenzio ci deve preoccupare, non tanto perché se fosse accaduto in tempi berlusconiani ci sarebbero state aspre polemiche. Questa è l’ennesima dimostrazione che i giornali marciano verso l’irrilevanza. Se due quotidiani come “la Repubblica” e “La Stampa” finiscono nello stesso gruppo vuol dire che i giornali pesano meno”.
Anselmi affronta la questione del conformismo dei media italiani osservando che per i partiti meno giornali si hanno di fronte e meglio è: “Ai politici piace il rapporto diretto, senza intermediazioni: vedi Twitter, Internet, Facebook. Piace la televisione dove raramente vengono contraddetti”.
Quello che meraviglia un giornalista attento ed esperto come Anselmi è il fatto che il mondo dei giornalisti e dei loro rappresentanti facciano passare nella sostanziale indifferenza un’operazione di questa portata e che l’opinione pubblica se ne disinteressi. Dopo aver espresso alcuni giudizi su Monti, Letta e Renzi (che ha messo in atto la tecnica di non fare prigionieri) osserva che i media italiani più che ascoltare la voce del “padrone” si nascondono dietro la tesi dominante. Si sa benissimo invece che certi giornalisti non sono graditi e non vengono invitati nei talk-show perché sono fastidiosi, va anche considerato che in Italia i maggiori quotidiani sono di proprietà di chi, indossando altri abiti, ha bisogno del Governo.
“Nella mia esperienza - ricorda Anselmi - di presidente della Federazione editori non ho fatto altro che andare in giro con il piattino. In un sistema che dipende per cultura dal potere pubblico tenuto conto del bisogno di aiuti dopo la grande crisi economica (che malgrado gli annunci ottimistici di Renzi è tutt’altro che alle spalle) i giornali si conformano”. E la qualità dell’informazione? E il rispetto del lettore che deve essere posto al primo posto? Alcuni editori rispondono che la colpa è dei giornalisti che sono iscritti all’Ordine e quindi certificati. Anche Anselmi sostiene la tesi di abolire l’Ordine dei giornalisti.
Ma se gli organici vengono ridotti all’osso è possibile fare informazione di qualità, inchieste, approfondimenti? È questo il problema della crisi dei quotidiani in Italia, la cui vendita è sempre in discesa da un secolo?
L’altro aspetto è il rapporto con le banche. Quanti sono gli istituti di credito che hanno le mani, in maniera diretta o indiretta, sull’informazione? I problemi sono complessi come evidenziano le decisioni che coinvolgono i due quotidiani inglesi “The Guardian” e “The Observer”. Per ora l’editore ha comunicato l’intenzione di tagliare 250 posti di lavoro di cui 100 giornalisti. L’obiettivo è quello di ridurre i costi del 20 per cento e come tutti gli imprenditori i tagli vengono fatti sul personale. Secondo la direttrice del “The Guardian”, Katharine Viner, la decisione è stata presa per fronteggiare l’ascesa del digitale e prevenire ulteriori tagli di personale. Nelle redazioni del gruppo lavorano complessivamente 725 redattori.
di Sergio Menicucci