Salviamo il Flaminio: una proposta liberale

giovedì 10 marzo 2016


Nel 2012, l’allora Presidente della Federazione Italiana Rugby, Giancarlo Dondi, salutò con un “arrivederci” lo Stadio Flaminio, a seguito dello spostamento delle partite della Nazionale italiana del pallone ovale sull’altra sponda del Tevere, all’Olimpico. L’auspicio era, infatti, di tornare a giocare nel gioiello di impiantistica progettato da Antonio e Pier Luigi Nervi, una volta ristrutturato e potenziato per renderlo conforme agli standards del 6 Nazioni, la più importante competizione europea di rugby.

Sono passati quattro anni e serpeggia sempre più velenoso il timore che quell’ottimistico “arrivederci” possa trasformarsi in un disperato “addio”. Il Flaminio, come è a tutti noto, agonizza nel degrado e nell’abbandono. Considerato bene di interesse artistico e storico, lo stadio romano, ubicato nei pressi di Viale Tiziano, al confine tra l’omonimo quartiere e i Parioli, era il tempio del rugby, ma anche del calcio. Vi si sono persino esibiti geni della musica internazionale, come David Bowie e gli U2, mentre oggi è luogo appestato dall’ennesimo caso di pessima gestione da parte di quel Leviatano noto come la “cosa pubblica” italiana. Di proprietà del comune di Roma Capitale, dopo vani tentativi di riqualificazione e di affidamento in gestione, si corre il rischio di vedere, per tanti anni ancora, un gioiello dell’ingegneria polifunzionale di intrattenimento al triste declino. Sporcizia, erbacce, vandalismo e incuria hanno preso il posto degli atleti della Nazionale italiana di Rugby e delle squadre di calcio romane che hanno sudato, vinto, perso e sofferto, nobilitando con l’impegno due sport meravigliosi. Basti chiedere ai tifosi di Roma e Lazio cosa ha rappresentato la stagione 1989-90, quando le due squadre dell’Urbe disputarono l’intero campionato al Flaminio, poiché l’Olimpico era in ristrutturazione per i Mondiali del ’90. Si ricorda quella sensazione da stadio inglese con il contatto diretto tra gli spalti e il campo da gioco, maledicendo la pista di atletica che ancora oggi lascia romanisti, laziali e ospiti a una distanza che sembra siderale nella fredda eleganza dell’Olimpico. E non è un caso che proprio i tifosi di rugby d’Oltremanica amassero particolarmente il piccolo impianto nei pressi di Viale Tiziano, così simile ai vecchi stadi britannici.

Tutto questo rischia di restare un ricordo, sempre più sbiadito, per colpa dell’incapacità degli enti pubblici di gestire un bene così importante. Se ne ricava una conclusione tanto lineare quanto drastica: il pubblico, anche in questo caso, ha fallito. E chi fallisce è opportuno che si metta da parte e lasci il passo a qualcuno più competente ed esperto nel saper valorizzazione un patrimonio. Nel tempo, anche nelle ultime settimane, sono stati pubblicati alcuni dossier sullo stato indecoroso del Flaminio e i politici dei vari schieramenti si sono detti pronti ad armarsi di buone intenzioni per risolvere il grave problema. Le belle parole, però, non sono state mai accompagnate dalle modalità di soluzione di questo grave problema. In Italia, la politica ha la pessima abitudine di non spiegare ai cittadini il metodo. Gianfranco Funari, in una sua trasmissione di anni fa, era solito rivolgersi al politico di turno per chiedere “come” intendesse affrontare e risolvere una criticità. Pertanto, lasciando a destra e a sinistra le belle parole, sarebbe opportuno soffermarsi una proposta liberale che potrebbe consentire il recupero dell’opera dei Nervi.

Lo Stadio Flaminio, come riportato nella petizione on line “Salviamo il Flaminio”, dovrebbe essere affidato in gestione da Roma Capitale a privati, attraverso un bando di gara a condizioni eque e non discriminatorie, i cui criteri di svolgimento e assegnazione dovrebbero essere fissati a livello normativo comunale. L’affidamento dovrebbe avere una durata predefinita, tale da consentire l’ammortamento degli investimenti di riqualificazione dell’impianto che necessariamente dovranno essere realizzati dall’affidatario e tale da permettere a quest’ultimo una congrua remunerazione. L’affidamento dovrebbe prevedere il mantenimento di livelli qualitativi di servizio da fissare nella deliberazione. Qualora l’affidatario venisse meno a tali standards, dovrebbero essere previste la revoca e l’inserimento del soggetto in una black list che non gli consentirebbe di partecipare a gare future nel territorio di Roma Capitale. Dunque, severità quanto mai opportuna, visto che è in gioco un bene di interesse artistico e storico. L’affidatario dovrebbe adottare, d’intesa con la Soprintendenza competente, tutti gli accorgimenti affinché venisse non solo tutelata, ma valorizzata la necropoli romana scoperta nei pressi dello Stadio Flaminio, attraverso la creazione di un sito espositivo di esaltazione del binomio sport-arte. Inoltre, lo Stadio Flaminio dovrebbe tornare ad essere l’impianto della Nazionale italiana di Rugby, visto il valore storico e simbolico che ha per questo sport. Pertanto, Roma Capitale, prima di indire la gara, dovrebbe sondare l’interesse della Federazione Italiana Rugby a stipulare un’intesa con l’affidatario, affinché quest’ultimo fosse vincolato a ospitare le partite del 6 Nazioni per tutta la durata dell’affidamento. L’affidatario, fermi restando i vincoli di cui sopra, potrebbe destinare l’impianto a tutte le attività sportive e di intrattenimento, a scopo lucrativo. Ciò affinché si stimoli l’interesse dei privati a tale iniziativa e se ne giustifichi l’iniziale investimento per la ristrutturazione e l’ammodernamento dell’impianto.

Adottando questo sistema, c’è da scommettere che, fra qualche anno, gli spalti del Flaminio torneranno a riempirsi. Il risultato potrebbe essere un simbolo della nuova Roma efficiente e moderna, che speriamo prenda il posto di quella attuale, corrotta e incapace. Un simbolo che esalti soprattutto lo sport, la cui nobiltà venne descritta da Thomas Arnold quale “antidoto all’immoralità e cura contro l’indisciplina”.

 

(*) Consigliere nazionale Pli - vicesegretario Pli Lazio


di Massimiliano Giannocco (*)