Il Papa e la buona coscienza industriale

martedì 1 marzo 2016


L’incontro tra la Chiesa di Francesco e l’imprenditoria italiana è stato uno snodo nel processo di costruzione di un nuovo umanesimo o l’ennesima fiera delle vanità? Sia nell’udienza concessa dal Papa agli industriali convenuti per il “giubileo dell’impresa”, lo scorso sabato, sia nel meeting che l’ha preceduta, il leitmotiv è stato il “fare insieme”.

L’analisi che ha spinto il Papa al dialogo con il mondo della produzione fonda sulla ricerca di una rinnovata centralità dell’uomo con il suo portato di ansie, di speranze, di dignità e di valori non negoziabili. La chiesa propone al mondo imprenditoriale un nuovo Ethos da condividere con la comunità. L’idea affonda le radici nell’enciclica “Populorum progressio” con la quale Paolo VI, nell’intento di promuovere una visione integrale dello sviluppo dell’uomo, pose le premesse d’inclusione del mondo dell’impresa nel progetto complessivo di civiltà originato dalla dottrina sociale della chiesa.

A distanza di mezzo secolo, dopo la tempesta che ha sconvolto l’economia mondiale, la cathedra di Roma richiama le classi dirigenti al dovere di tentare la strada della responsabilità sociale in vista di uno sviluppo sostenibile, compensativo degli effetti distorsivi prodotti dall’ultimo capitalismo sugli equilibri sociali. La chiesa, dal consolidamento dei più recenti modelli consumistici, rileva il rischio di una perdita di senso per la dimensione spirituale dell’uomo. Il rimedio proposto potrebbe stare in uno slogan: Valori contro valore. Il Papa chiede all’impresa un nuovo orizzonte di altruismo nel quale la dignità della persona non venga calpestata dalle esigenze produttive, “che mascherano miopie individualistiche, tristi egoismi e sete di guadagno”. Sante parole se non fosse che sono incompatibili con l’odierna concezione d’impresa incardinata nel circuito economico globale dalla dominante di sistema che è la componente capitalistica.

Cambiare le cose non è semplice. La conversione ad una governance socialmente responsabile comporta la necessità che lo scambio tra risorse impiegate e risorse prodotte dall’attività d’impresa generi valore per gli stakeholders, che sono quei gruppi o quei singoli individui che con essa interagiscono. Solo se gli stakeholders trarranno interesse per se stessi potranno essere convinti a sostenere relazioni di lungo periodo con l’impresa. Per dirla in parole semplici, non basta che l’imprenditore dia qualcosa dei suoi guadagni all’esterno per scopi sociali o umanitari: sarebbe semplice beneficenza. È necessario che parte del profitto venga sottratto al dividendo e destinato a investimenti che generino utili, non necessariamente economici, per soggetti diversi dall’imprenditore o dagli azionisti. Domanda: i nostri industriali sono pronti a compiere un passo del genere? Alcuni certamente, ma “alcuni” non sono la maggioranza del tessuto imprenditoriale italiano.

Ciò detto, non vuol dire che non si debba riflettere sul futuro del rapporto tra impresa e società, anche in termini di ristrutturazione delle componenti del profitto. Tuttavia, si deve essere realisti. L’unico impegno che l’imprenditore è disposto a riconoscere come riconducibile a un criterio di responsabilità sociale è quello di creare lavoro generando utile. Il resto appartiene alle atmosfere propositive dei meeting tra “esperti della materia”, ma che prontamente si smaterializzano a contatto con la quotidianità. Al momento, le “buone prassi” sono belle parole: stereotipi vagamente moraleggianti, per usare un’espressione del cardinale Gianfranco Ravasi. Molti di coloro che abbiamo visto genuflettersi davanti al santo padre, sabato scorso, sono gli stessi che vanno nei Paesi del Terzo Mondo a sfruttare il prossimo in modo indecente. Sarà anche per questa diffusa ipocrisia che il nuovo umanesimo gira alla larga da viale dell’Astronomia.


di Cristofaro Sola