sabato 27 febbraio 2016
Ho passato anni della mia vita, i migliori di quella professionale anch’essa fin troppo lunga, ad occuparmi delle sottigliezze del Diritto canonico, che nell’Italia concordataria si voleva fossero “riconosciute” dall’ordinamento statale. Avanti a Corti d’Appello, Cassazione, Corte costituzionale mi è toccato a discettare delle “riserve mentali” che per i preti erano più che valide per escludere che una coppia di coniugi con figli e figlie potesse dirsi o meno effettivamente “unita in matrimonio”.
L’esclusione, anche non manifestata, del “bonum sacramenti”, la caratteristica del matrimonio relativa all’obbligo della reciproca fedeltà, era (ed è) per i preti, motivo di “nullità del vincolo”. Con quel che segue, o si voleva che seguisse, in fatto di soldi, assegni di mantenimento, ecc..
Non mi sarei però mai immaginato che dopo decenni, in cui il potere di “liberare dal vincolo matrimoniale” rivendicato dalla Chiesa nei confronti dello Stato (ricordo che sentivo dire, da ragazzino, che il Papa aveva “liberato” Marconi dal matrimonio con la prima moglie in premio della invenzione della radio) la questione di questo benedetto (si fa per dire) “bonum sacramenti” sarebbe tornata ad incendiare la scena politica. Però un “bonum sacramenti” non già necessario e “naturale” per il matrimonio (quello che da qualche decina di secoli si considera tale) ma per le “Unioni civili”, cioè gay (che quelle eterosessuali sarebbero più o meno incivili).
Sissignori dopo averne dette di cotte e di crude i nostri legislatori “progressisti” sembrano avere raggiunto un accordo, cioè non un accordo, perché hanno deciso “per la fiducia”. Ora il Governo “mette la fiducia” quando, altrimenti, l’accordo non c’è. Ma la fiducia, imposta dalla mancanza di fiducia nel consenso del Senato, ha dovuto lasciar fuori la questione delle adozioni, con le quali i gay avrebbero dovuto essere compensati dell’errore e della violazione del diritto di parità commessi dalla Natura in loro danno escludendoli dal “diritto” di procreare.
Tutto bene? Macché! È venuta allora fuori, la questione della “fedeltà”. Perché qualcuno dopo aver parlato, scritto, discettato di “unioni civili”, affermando che si doveva dare rilevanza giuridica (e certezza documentale) a chi sa quante (ma, poi, quante?) unioni già esistenti nella realtà sociale, ha pensato bene di stabilire come devono essere queste unioni che, però, dicono che già esistono e che bisogna “legittimare”. Devono essere unioni stabili (e va bene) e, poi “fondate nella reciproca fedeltà”, cosa che non ha riscontro nella realtà sociale. Sono insorti i recalcitranti: “Ma se devono essere fedeli, allora c’è troppa somiglianza con il matrimonio” (affermazione ottimistica!). E pretendono di “togliere la fedeltà”. Sarebbe più logico che si volesse chiarire che, è escluso il requisito del “bonum sacramenti”, infatti il matrimonio gay o l’unione civile (o incivile) che sia non ha e non pretende, almeno per ora, di avere carattere sacramentale, quello da cui la Chiesa fa discendere l’obbligo della fedeltà (e, in caso lo si voglia, anche segretamente, escluderla facendone derivare la validità o la nullità del vincolo).
Dico subito che vedere certa gente, Renzi, Alfano, Verdini, ecc. ecc. discettare di certe questioni, in cui in passato finivano col perdere il filo del discorso anche famosi giuristi “in utroque”, teologhi e sapienti vari, mi fa venir da ridere. E soprattutto me la rido pensando alla specialista in canili, la Cirinnà, cui è affidato il compito di vedersela col distillato di sottigliezze del genere. Elefante in un negozio di chincaglierie. Ma quel che fa ridere di più è il fatto che, dopo tutto questo gran parlare della legittimazione della “realtà sociale di certe unioni” ci si accorge che resta da stabilire come e che cosa devono essere queste benedette (senza allusioni) unioni. Questo obbligo della fedeltà, mancando un “negozio formale”, dal quale si faccia nascere il rapporto di “quasi coniugio”, non si sa come possa sorgere se l’unione invece che caratterizzata da esclusività della reciproca dedizione, sia una difatti “unione aperta”. Che succede in questo caso? Il gay coniuge n. 1 potrà andare dal signor giudice a reclamare per l’infedeltà del gay quasi coniuge n. 2, chiedendo i danni? O, magari chiederà la dichiarazione di nullità dell’unione di fatto per esclusione del “bonum sacramenti” omosessuale? E il gay che si sottoponesse a “cure” (ove esistenti) per diventare eterosessuale verrà condannato per tentata infedeltà con l’aggravante della (pure tentata) eterosessualità?
Ma, soprattutto se domani una coppia gay andrà a registrarsi come tale, la registrazione potrà esserle negata per la mancanza del requisito dell’impegno alla fedeltà che “guasterebbe” il rapporto? 3 Non pretendo di porre questioni che siano punti fermi di saggezza giuridica. Quel tanto che ancora me ne rimane non sono disposto a spenderlo per discettare con la signora dei canili e neanche per evitare di aggiungere qualche mia autentica baggianata a quelle che altri così autorevolmente, pertinacemente e disinvoltamente ci propina. Ma, almeno io non pretendo di riformare la società. Quando ritenessi di doverlo fare, cercherei, almeno, di essere serio.
di Mauro Mellini