mercoledì 3 febbraio 2016
Si discute della stepchild adoption, ”adozione del figliastro”, che consente al figlio di essere adottato dal partner, unito civilmente o sposato, del proprio genitore. Quando due adulti formano una nuova famiglia, a seguito di divorzio o decesso del coniuge, ed uno di loro, o entrambi, portano un figlio avuto da una precedente relazione, al minore deve essere garantita l’instaurazione di un rapporto giuridico analogo a quello genitoriale con un soggetto al quale non è legato biologicamente, ma determinato ad assumere nei suoi riguardi un ruolo genitoriale.
La stepchild adoption è consentita in Germania nelle forme simili alla versione italiana; mentre l’adozione piena e legittimante, aperta sia a coppie eterosessuali che omosessuali, è prevista nel Regno Unito, Francia, Spagna e Grecia. In Italia è istituita dal 1983 per le sole coppie eterosessuali sposate e dal 2007 anche conviventi, unioni di fatto, purché vi sia il consenso del genitore biologico ed a condizione che l’adozione corrisponda all’interesse del figlio. L’adottante assume nei confronti dell’adottato i tipici doveri del genitore, ed in particolare il dovere di provvedere alla assistenza morale e materiale dell’adottato, al pari del genitore biologico. Il minore, invece, per effetto dell’adozione diviene erede dell’adottante, verso il quale può anche vantare il diritto agli alimenti qualora si ritrovi nel corso della sua vita ed essere in stato di bisogno.
Nel 2014, il Tribunale dei minori di Roma ha riconosciuto di fatto la prima adozione omosessuale, permettendo a una donna di adottare la figlia naturale della compagna. Le donne si erano sposate in Spagna e sempre all’estero erano ricorse alla procreazione eterologa assistita per avere un figlio. Il tribunale si è basato sull’articolo 44 della legge sull’adozione del 4 maggio 1983, che la contempla in alcuni casi anche per le coppie non sposate, nel superiore e preminente interesse del minore a mantenere anche formalmente con l’adulto, in questo caso genitore sociale, quel rapporto affettivo e di convivenza già positivamente consolidatosi nel tempo”.
Anche la Corte di Cassazione aveva confermato l’affidamento di un bambino alla madre che viveva con la sua compagna, stabilendo in una sentenza che è un “mero pregiudizio” sostenere che sia dannoso per i bambini crescere in una famiglia omosessuale. Questi bambini, spesso nati all’estero grazie alla procreazione assistita eterologa, in Italia risultano figli solo del genitore naturale. Nelle critiche più dure si sostiene che questa norma se approvata potrebbe portare ad una compravendita di bambini dagli Stati che lo permettono, tramite l’“utero in affitto”. Il partner di una coppia omosessuale avrebbe il diritto di adottare il figlio del compagno/a per allevarlo, curarlo, farlo crescere sano e sereno, educarlo, valorizzarne le inclinazioni naturali, sostenerlo durante il suo sviluppo di fronte agli ostacoli e alle insidie della vita. Insomma, trasmettere affetto e formare un bambino/a, tutelandone tutti i possibili diritti.
Una prima considerazione andrebbe posta ai favorevoli ed ai contrari: è del tutto uguale se un bambino/a vive con due padri o con due madri? E’ indifferente regolamentare situazioni diverse? In ogni caso mentre nel Paese, con la Costituzione più bella del mondo, si dibatte su questi diritti, così come è avvenuto in tutta Europa (ogni Paese ha adottato una propria legislazione), al Tribunale per i minorenni di Roma, dove di fatto è stata riconosciuta la prima adozione omosessuale, la regola è quella che il bambino/a deve obbligatoriamente stare, frequentare, vivere con un padre o una madre, a seconda dei casi, anche se la presenza del genitore malvagio e irresponsabile gli crea gravi disagi a causa dei suoi comportamenti violenti, aggressivi, persecutori, comunque delittuosi. E se a questa regola il genitore-vittima e il bambino-vittima non si piegano, il bambino/a viene spedito in uno dei lager di Stato, struttura di correzione e/o casa famiglia, allontanato definitivamente dal padre e dalla madre per essere affidato a degli estranei che dovrebbero avere cura di uno sconosciuto e nel migliore dei casi non saprebbero neppure da dove cominciare. Così è condannato a vivere lontano dai suoi affetti e dalle persone che gli hanno voluto bene, parenti ed amici, compagni di giochi e vicini di casa. Allontanato dal suo piccolo mondo, lontano dalla sua vita collettiva, affidato spesso a dei carcerieri peggiori dei nazisti di recente memoria. Questa è la dura realtà, non quella delle opinioni scritte sulla carta.
Un dibattito acceso, volgare, grossolanamente ideologico, di contrapposizioni ignoranti per affermare la vittoria di un fronte politico nei confronti di un altro, con le solite obsolete accuse dicotomiche tra conservatori e progressisti, fascisti e comunisti, intelligenti e deficienti, intellettuali e reazionari, difensori e negazionisti dei diritti. Un minuscolo popolo di somari che lotta per apparire sul video e avere un po’ di spazio sulla stampa compiacente. Il problema, ovviamente, non viene correttamente ed ampiamente illustrato ai cittadini e quei pochi interessati, considerato che molti sono impegnati per trovare le risorse per campare, si dividono secondo appartenenze di partito, salvo rare eccezioni che hanno la coscienza di pensare in proprio. Un film già visto in molte occasioni che alimenta lo stupidario nazionale tra attori privi di qualsivoglia cultura antropologica e scientifica, in assenza di quel principio filosofico immortale: il dubbio metodico. Il campione della assenza di questo principio guida di ogni sapere è il simpatico Beppe Severgnini, che con il suo articolo del 30 gennaio scorso sul Corriere della Sera ha toccato le vette più alte della dialettica alla Nutella, pur potendo la sua posizione o scelta in favore alla stepchild adoption essere la migliore, che al momento va per la maggiore nel mondo della informazione illuminata o nelle trasmissioni televisive, dominio di quei fenomeni imbiancati che ascoltiamo da vent’anni. Il buon Severgnini si abbandona ad una serie di improprie comparazioni, di esemplificazioni incongrue e banali preoccupato di apparire moderno e difensore dei diritti, quando il tema avrebbe bisogno di argomentazione e ragionamenti ben più colti e scientifici. La prima cosa che dovrebbe sapere l’accattivante Severgnini riguarda la definizione di cultura, che non consiste nell’aver letto Dante e Manzoni, ma la cultura dei fatti sociali e questo è un fatto sociale, con le sue molteplici implicazioni; la cultura di segno antropologico ed etnologico che serve a comprendere e spiegare i fatti sociali. Se la memoria non mi fa difetto, il tollerante Severgnini in un dibattito avrebbe sostenuto l’approccio olistico ai problemi. Bene, ma non dovrebbe dimenticare di applicarlo sempre e non fare come molti magistrati che consegnano ad una stessa norma variopinte interpretazioni. La semplificazione è nemica dei diritti ed anche i buoni diritti non assicurano le tutele, perché quei diritti devono trovare l’applicazione nella realtà e quei diritti dovrebbero essere la guida per l’agire delle persone e non sempre ciò accade.
Nel dipinto di Van Gogh “Un paio di scarpe” del 1887, quel semplice mezzo per lavorare i campi rappresenta l’imitazione della realtà sensibile, un richiamo al pensiero del mondo contadino, quella totalità di significati che caratterizzano e rendono comprensibile la sua vita quotidiana di contadino, il suo agire e il suo patire, il suo gioire e il suo soffrire, il suo sperare e il suo temere. La vita ed in particolare la vita di un bambino/a non può dipendere da una legge, anche la migliore possibile. Va cambiato l’ambiente dove vive e le truppe a favore o contro non aiutano.
di Carlo Priolo