mercoledì 27 gennaio 2016
“Gli italiani amano parlare di calcio, donne e automobili. In tema di imposte, invece, sono piuttosto evasivi”.
I tributi, che includono tasse e imposte, sono sempre esistiti poiché nessuno Stato, indipendentemente dalla forma di governo, può reggersi e operare senza prelevare ricchezza dai suoi cittadini. In molti casi storici, tuttavia, lo Stato si è dimostrato troppo vorace e ingiusto e ha spinto la popolazione alla rivolta o addirittura alla rivoluzione, come accadde in Francia alla fine del XVIII secolo e poi altrove.
Le democrazie anglosassoni, sulla scorta della parola d’ordine dei coloni americani “no taxation without representation”, hanno poi introdotto l’idea secondo cui l’imposizione di tributi non è legittima se i contribuenti non sono rappresentati in Parlamento. Ogni Costituzione attuale, d’altra parte, indica il pagamento delle imposte come dovere del cittadino nei confronti della comunità, rappresentata appunto dallo Stato. Da tutto ciò non si deduce in alcun modo che pagare i tributi sia bello, ma certamente che è conveniente poiché le richieste che tutti noi facciamo in continuazione allo Stato non troverebbero risposta possibile se esso non avesse risorse finanziarie a disposizione.
Fin qui, tutto fila liscio. Ma perché, allora, l’Italia è un Paese fra i primi al mondo in fatto di evasione e di elusione fiscali? Molti rispondono che, da noi, il sistema fiscale è tanto esoso da spingere ad evadere e altri affermano che i servizi che lo Stato fornisce in cambio dei tributi è talmente inefficiente che è ben difficile sentirsi stimolati a pagarli. In realtà, al di sotto di simili pur parzialmente ragionevoli spiegazioni, c’è la nostra inveterata attitudine all’egoismo e a quello che il sociologo Edward C. Banfield, anni fa, definiva come atteggiamento amorale, cosa che, nel lessico più spiccio, non è altro che la “furbizia” di cui molti di noi vanno ancora oggi stupidamente orgogliosi. E non si tratta solo dei grandi evasori perché, sul piano quotidiano, tutto questo si traduce in migliaia, anzi milioni di piccole sciatterie, volontarie, per le quali servizi e produzioni di vario genere avvengono senza certificazione fiscale, costituendo, alla fine, un danno enorme alle casse dello Stato. Lo Stato al quale, poi, chiediamo di fornire una buona scuola e una buona sanità, di darci sicurezza e di agevolare l’economia, di garantire buoni trasporti e di tutelare questo e quello, come se lo Stato – ora, per pudore, si parla delle “istituzioni” – avesse un patrimonio proprio e fosse avaro nell’usarlo per il bene collettivo. Molti si stanno persino chiedendo come mai, a fronte dell’impressionante discesa del prezzo del petrolio, in Italia la benzina continui a costare così tanto, ignorando o facendo finta di ignorare, che dal prezzo di ogni litro lo Stato incassa oltre un Euro e che, senza questa “accisa”, sarebbe al fallimento.
Non c’è dubbio che lo Stato italiano, dal secondo dopoguerra, abbia dato fino ad oggi una non ottimale prova di sé nell’impiegare le risorse disponibili. Ma è pur vero che dalla parte dei contribuenti non c’è stata alcuna particolare devozione nei suoi confronti. Forse perché, per secoli, non abbiamo avuto uno Stato ma tanti staterelli locali, molto prolifici in fatto di tasse e gabelle, imposte e balzelli utilizzati per tutto fuorché per ciò che, oggi, chiameremmo la “crescita” o, più semplicemente, il bene comune.
Lo Stato, per un liberale, è cosa sacra, purché non si immischi in faccende che non lo riguardano e che coinvolgono le libertà individuali, a cominciare dall’economia. Ma il tanto preteso “senso dello Stato” non riguarda solo la classe politica o la burocrazia statale ma ogni cittadino. Egli, nel momento in cui, potendolo fare, decide di evadere oppure no, soppesa il proprio interesse immediato rispetto a quello di maggiore respiro, e illusoriamente più lontano, che dipende dall’efficienza e dall’efficacia dello Stato. Sulla sua coscienza, da noi, non pare però gravare alcuna remora nel caso decida di evadere. Eppure pochissimi avranno letto un articolo dei francescani, degli anni Sessanta, sulla rivista Frères du Monde, nel quale si sosteneva, dopo sofisticate elucubrazioni, che l’evasione fiscale diventa “peccato” se è maggiore del 2 per cento (sic!). Molti italiani sono bravissimi ad assolversi per conto loro. Anche al di sopra del 50 per cento.
di Massimo Negrotti